"Pipaza" Minardi con Fausto Coppi

Se non ci fossero stati, Pipaza e Piedone sarebbe stato bello inventarli

Gino Cervi

Ieri l'addio a Giuseppe Minardi e Pedro Waldemar Manfredini, il primo ciclista dell'epoca di Coppi e Bartali, il secondo goleador della Roma degli anni Sessanta

Ieri, 21 gennaio 2019, si sono chiuse le pagine di due grandi vecchi dello sport. All’ospedale di Faenza è morto Giuseppe Minardi, gran bel corridore ciclista dell’epoca d’oro di Bartali e di Coppi. Avrebbe compiuto 91 il prossimo 18 marzo. Ne aveva invece 83 Pedro Waldemar Manfredini, calciatore oriundo argentino, formidabile bomber della Roma nella prima metà degli anni Sessanta.

 

O per meglio dire si sono chiuse le pagine di due capitoli del romanzo dello sport, di quel romanzo che ribattezzava i propri beniamini della strada e del campo con soprannomi da cantastorie, da chanson de geste o da balle da osteria, e non con cifre e numeri: anche se ieri sera quello che si è fatto parare il rigore da Sorrentino, sarà forse per colpa dei guai fiscali cui deve rispondere davanti alla giustizia spagnola, più che da CR7 aveva una faccia da F24.

 

Giuseppe Minardi, da Solarolo, come Davide Cassani, era per tutti Pipaza, affettuoso accrescitivo di Pipo, ipocoristico, cioè vezzeggiativo, di Giuseppe. Ed era come, quando lo chiamava per nome, dichiarare di voler bene a quel Rodomonte di corridore che sembrava uscito da un film kolossal americano di quei tempi. Pipaza Minardi, forse anche grazie a quel cognome rombante di motore, di corse ne ha vinte tante, dal 1949 al 1958, anni in cui Bartali, Coppi e pure Magni di solito lasciavano solo le briciole a tutti gli altri. Pipaza dava il meglio di sé nelle corse di un giorno, anche se nel suo palmarès si contano sei tappe al Giro d’Italia, una ogni anno dal ’51 al ’56, e tre giorni in maglia rosa, da Palermo a Bari, nel Giro del 1954 (fino a ieri è stato il più vecchio corridore in vita ad avere indossato una maglia rosa: da oggi è Guido Messina, classe 1931). E poi il Giro di Lombardia del 1952, vinto in volata su Nino De Filippis (l’anno prima era arrivato secondo dietro a Louison Bobet ma davanti a Fausto Coppi); un Trofeo Baracchi (1951, in coppia con Fiorenzo Magni); una Tre Valli Varesine (1952); un Giro di Campania (1952); un Giro di Romagna (1954); un Giro del Piemonte (1955); e infine per due volte il Trofeo Matteotti (1949, ancora da dilettante, e 1955) e il Giro della Provincia di Reggio Calabria (1954 e 1956). Per due anni consecutivi sfiorò la Milano-Sanremo, battuto entrambe le volte in volata da Loretto Petrucci, alfiere scomodo della Bianchi: ci scommetto che il capitano Coppi sarebbe stato più felice che vincesse il Pipaza. Proprio il Fausto un giorno confessò a Minardi, che aveva vinto un centesimo di quello che aveva vinto lui, di invidiargli però una vittoria.

 

 

Era la 6a tappa del Giro del 1953, quella che il 17 maggio Napoli arrivava a Roma, allo Stadio Olimpico il giorno della sua inaugurazione. Ad attendere l’arrivo della corsa c’erano 90.000 spettatori che avevano poco prima assistito alla partita internazionale tra Italia e Ungheria: i magiari, Hidegkuti e doppietta di Puskas, ne suonarono tre – a zero – ai malcapitati azzurri con Boniperti in campo e Peppin Meazza in panchina. Mai capitato che un ciclista venisse applaudito da 90.000 spettatori in uno stadio: ma in quel tardo pomeriggio romano il pubblico dell’Olimpico accolse con un’oceanica ovazione lo sprint di Pipaza Minardi che sulla pista di atletica, dove sette anni dopo avrebbe volato Livio Berruti, bruciò il compagno della Legnano, Luciano Maggini.

 

 

Dopo sette anni in maglia verde oliva della Legnano, agli ordini dell’Avocatt Eberardo Pavesi, Minardi chiuse la carriera con la Leo-Chlorodont. C’è una sua foto, al Giro del 1957. Il gruppo sta superando con un certo parapiglia le stanghe abbassate di un passaggio a livello: un gigantesco Minardi sta sollevando la sua bicicletta e alle sue spalle compare un giovanissimo meccanico, Ernesto Colnago.

  

Lo Stadio Olimpico è stata per sei anni la “casa giallorossa” di Pedro Waldemar Manfredini, che tutti a Roma conoscevano come “Piedone”. Era nato il 7 settembre 1935 a Maipù, nel distretto di Mendoza, in Argentina, nipote di emigranti italiani, cremonese il nonno, pugliese la nonna. Occhi chiari, scriminatura bionda e mascella squadrata, Pedro venne acquistato nel 1959 dal Racing Club di Avellaneda. Quando il 22 giugno sbarcò a Fiumicino una foto lo ritrasse mentre scendeva dalla scaletta dell’aereo con il piede destro calzato di nero cuoio che sporgeva abbondantemente dal predellino. Da quel momento per tutti fu Piedone. Presto però i tifosi si dimenticarono del numero di scarpa e cominciarono a contare il numero di gol, però il soprannome rimase: nelle sei stagioni in maglia giallorossa, Piedone Manfredini segnò, tra campionato e coppe, la bellezza di 104 gol in 164 presenze. Capocannoniere del campionato nel 1962-63, a pari merito col bolognese Harald Nielsen, giocò in coppia con lo svedese Arne Selmosson e con il connazionale Antonio Valentin Angelillo. Segnò ben nove triplette in campionato: i tifosi romanisti non potranno mai dimenticate quella nel derby del 13 novembre 1960, vinto per 4-0. Nel 1965 passò all’Inter, poi al Brescia e infine al Venezia, senza però ripetere le gesta da fromboliere dimostrate nella Capitale. Appese le scarpette al chiodo, tornò a Roma dove aprì un bar a piazzale Clodio, chiamandolo – e come sennò? – “Da Piedone”. In Che vitaccia!, un episodio del film I mostri di Dino Risi, del 1963, Vittorio Gassman, un borgataro con le pezze al culo che poco prima si dispera per non trovare i soldi per comprare gli “autobiotici” per curare il figlioletto, delira sugli spalti allo stadio (“Madonna, me vie’ uno sturbo!”) per un gol di Piedone Manfredini.

 

 

Pipaza e Piedone: se non ci fossero stati, sarebbe stato bello inventarli.

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