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Meglio sul palco che in campo. Così la suona Osvaldo

Giorgio Burreddu

L’addio al calcio, Messi che gli chiede se è matto, la musica e i testi buttati giù tra ritiri, viaggi e notti in hotel. L’ex attaccante della Roma e della Nazionale racconta la sua vita da musicista

Nella vita di Pablo Daniel Osvaldo non c’è mai stato un momento senza musica. Quando era un bambino, il suo papà provava a insegnargli a suonare la chitarra. “Ma io mi scocciavo, non ho pazienza. Poi mi ci sono messo da solo e ora me la cavo”. Quando giravano in auto per Lanùs, il posto dove Dani è venuto su, c’era sempre una cassetta dei Creedence ad accompagnarli. “Papà la metteva tutte le volte, era un best of, io facevo finta di suonare e cantavamo”. L’hanno definita la seconda vita di Osvaldo, ma non è vero, è una bugia: lui è sempre stato un artista. Solo che prima lo faceva sui campi di calcio, ora sta su un palco.

 

“Quella del musicista è una vita che sto scoprendo adesso. Il tour è duro, stancante, passi dal palco al letto e dal letto al palco. Però ci divertiamo, e io faccio quello che mi piace”. Tre anni fa prese un aereo per Barcellona, andò fino all’appartamento dei suoi amici. “Dissi: basta, non gioco più, lascio il calcio. Mettiamo su una band? E’ andata così, è stato tutto spontaneo”. Lì c’erano Agustín che suonava la chitarra, Tai con le sue camicie hawaiane che suonava il basso, e Sergio con il codino pieno di brillantina alla batteria. Sono nati così i Barrio Viejo.

 

“I ragazzi li ho conosciuti ai tempi dell’Espanyol. Andavo a vederli suonare nei baretti, facevano blues acustico. Anche da calciatore, appena avevo qualche giorno libero andavo a trovarli. Con Agustín ci scherzavo sempre, gli dicevo che un giorno avremmo fatto una band. Abbiamo anche suonato per strada a Barcellona”. Una volta passano degli italiani, erano i tempi in cui Dani giocava nella Roma. “Ma quello è Osvaldo”, fa uno. “E secondo te Osvaldo si mette a suonare per strada?”, dice l’altro. “Ma guardalo, è uguale”. Dani oggi lo racconta ridendo. Hanno scelto il rock ’n roll “perché è la musica che sento dentro” dice Dani, e l’hanno fatto diventare un album dal titolo Liberacìon.

 

“La musica è uno stato d’animo, a seconda di come ti senti vai a cercare l’artista, la canzone, e sembra quasi che alcuni ti conoscano, che sappiano capire di cosa hai bisogno. Suonano per te. La musica è una cosa che non smetti mai di apprendere, di capire, di imparare. Come dice Keith Richards: 'La chitarra è infinita'. Non finisci mai di conoscerla, è lì che ti tiene”.

 

C’è un unico punto di rottura nella storia di Osvaldo: sono i soldi. In tanti lo hanno definito matto. Anche il suo amico Messi. “Mi ha detto: 'Fai musica? Sei matto?'. Ci siamo abbracciati, e giù risate. Non c’è stato un giorno in cui ho capito di voler lasciare il calcio, la cosa mi girava nella testa da un bel po’. Mi sono deciso, ho chiamato il mio agente e gli ho detto non voglio giocare più. Sì, il coraggio ci vuole. Non è facile uscire da un mondo dove la prima cosa che guardano tutti è che guadagni tanti soldi. Dire di no a tutti quei soldi per molti è una follia. Per me è stata una liberazione. Più soldi hai e più problemi hai”.

 

Il coraggio ci vuole, dice Dani, ma quello serve sempre quando insegui le tue passioni. Ora è un uomo libero. “La libertà è fare quello che vuoi, quello che ti piace. Nel lavoro devi avere delle regole. Ma a me piace che queste regole non siano un obbligo. Ci deve essere un perché. A volte nel mondo del calcio ti fanno apparire come uno che va contro le cose, contro le regole, ma non è così. Io le ho sempre rispettate, e le accetto. Ma spiegami perché non posso fare una cosa solo perché è venuta in mente a te. La libertà è farsi sentire al di là di quello che pensano gli altri, di quello che gli altri si aspettano da te. Non ho più questi problemi, adesso. Ora siamo una band, siamo un gruppo di amici”. Scrive la notte, “il giorno non so nemmeno cos’è”, legge Bukowski, ascolta musica. “E lo faccio tutto il giorno. Amo il vinile che fa quel suono di frittura, ccccrrrr, mi fa impazzire”.

 

Scrive da sempre, Osvaldo. I testi delle sue canzoni li ha buttati giù nei lunghi ritiri, nei viaggi tra uno stadio e l’altro, nelle notti in hotel. “Il primo testo però non me lo ricordo. Sicuramente era per qualche ragazza, si inizia sempre così: l’amore è qualcosa di scatenante”. Ma non c’è solo quello. “Il rock è combattivo, si dice in Argentina. Va contro i poteri, le ingiustizie sociali. Il mondo va nella direzione opposta, troppi Trump, troppi Salvini. Negli anni Ottanta, Novanta, tutti cantavano l’amore, anche quello sbagliato. Ma devi fare altro, devi dire qualcosa per la società, per la gente. Il rock è di tutti, di quelli che hanno problemi nella vita o sul lavoro. E per farlo ho scelto lo spagnolo. Potrei scrivere in inglese, ma non sarebbe naturale”. La musica è di tutti, come il calcio. O forse no. “Quando giochi a calcio guardi il pallone, l’avversario. Invece nella musica gli sguardi li senti più vicino, te li senti addosso. Nel calcio non giochi per la gente, giochi perché vuoi vincere, per la competizione. Poi sì, c’è anche la gente. Ma nella musica no, quella serve per far divertire la gente”. E sembra strano, soprattutto detto da uno abituato a giocare davanti a migliaia di persone: “All’inizio avevamo una saletta a Barcellona, un posto piccolo, facevano qualche concerto clandestino per gli amici. Poi un giorno andiamo in Argentina, per suonare con “La 25”, una band famosa lì. Beh, il posto era uno stadio. C’erano seimila persone. Ero molto teso. Quando sono sul palco mi vergogno. Perché è una forte emozione, a volte mi tremano le gambe. Più passa il tempo e più mi sento sciolto, sono più sicuro con la voce. Ma all’inizio era un incubo. Dopo un po’ ho capito che quando ti concentri e ti diverti riesci a trasmettere queste cose belle anche al pubblico, alle persone che sono venute a vederti. Devi dargli qualcosa in cambio. Magari pensate che sono un coglione, che ho lasciato il calcio, i soldi, che sono in un bar a fare musica e che non mi dà reddito. Ma alla fine la vita è una. La gente pensa che se sei bravo in una cosa la devi fare fino alla morte. No. Se non provi, non saprai mai se sei bravo pure in un’altra. Io voglio vivere mille vite in una, perché non ne ho mille da vivere”. Non è una questione di identità, di chi vuoi essere davvero. “Sono un tipo fortunato, ma non lo so chi sono. Non è facile, a volte non mi sopporto nemmeno io. Però io sono Dani, tutto qui”.

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