Foto tratta da Wikipedia (Photos Vintage Série A, su calciomio.fr, 24 luglio 2013)

Buffa racconta chi era Gaetano Scirea

Giorgia Mecca

Il difensore della Juventus e della Nazionale piaceva a tutti, ai compagni e agli avversari, anche a quelli del Toro. Stasera lo speciale di Sky Sport Uno

Gaetano Scirea da quella macchina non voleva scendere. Era il 1974 e il calciatore era appena arrivato a Torino da Bergamo. Stava per diventare un giocatore della Juventus ma non riusciva ad aprire la portiera. Un conto è sognare di potere un giorno indossare la maglia a strisce bianconere, un altro è arrivare al campo di allenamento e rendersi conto che quel sogno è a pochi centimetri dalle proprie gambe. Aveva 21 anni ed era spaventato. Sarebbe stato all’altezza di tutta quella storia? Fu suo fratello Paolo a costringerlo a uscire. Tutti quelli che hanno avuto la fortuna di vederlo giocare giurano che sì, ne è stato all’altezza.

 

Gaetano Scirea fu il numero 6 della Juventus dal 1974 al 1988, l’anno del ritiro. In carriera ha vinto tutto ciò che un giocatore può sperare di vincere: 7 scudetti, 2 Coppe Italia, Coppa Uefa, la maledetta Champions dell’Heysel, la Supercoppa e i Mondiali di Spagna del 1982. Scirea piaceva a tutti, ai compagni e agli avversari, anche a quelli del Toro; piaceva ai tifosi (a quelli intelligenti, non a quelli che scrivono ancora oggi striscioni vergognosi) e all’Avvocato. Era schivo, figlio di operai, naturalmente e spontaneamente elegante, giocava a testa alta, intuiva il gioco meglio degli altri. Quando Zoff lo vide per la prima volta, il ragazzo gli sembrò così giovane e così timido che decise di proteggerlo. Il portiere della Juve era l’entità spirituale della squadra ma capì subito che non avrebbe avuto niente da insegnargli, un giocatore così era utile in qualsiasi parte del campo: “Faceva il difensore in difesa, il centrocampista a centrocampo, l’attaccante quando si trovava nell’area avversaria”. Zoff e Scirea non sono mai stati dei chiacchieroni. La notte della finale dei Mondiali, subito dopo l’urlo spiritato di Tardelli in mezzo al Bernabeu di Madrid, i due si ritrovarono in camera e rimasero in silenzio. Erano uomini in pace, non avevano niente da dirsi. “Ti prego, Dino, mica andremo in discoteca a deturpare tutto?”. “No, tranquillo Gae, rimaniamo qui”. Erano i campioni del Mondo, giocarono a carte fino a notte fonda ed erano sicuri che non avrebbero più vissuto un momento così.

 

Federico Buffa per preparare il documentario “SkyBuffaRacconta Gaetano Scirea” (questa sera su Sky Sport Uno andrà in onda la prima parte, il 26 dicembre la seconda), è andato a parlare con i testimoni oculari del calcio di quegli anni, i suoi amici e i suoi compagni. Ci sono le testimonianze di Zaccarelli, Zoff e Prandelli, di sua moglie Mariella e del fratello Paolo . E poi immagini di repertorio, video e interviste. La frase più bella la dice Tardelli: “Un giocatore così doveva essere l’ultimo ad andarsene e invece è stato il primo”. A Zoff Scirea manca ancora, ogni giorno. Soprattutto gli manca quel calcio popolare che si imparava nei giorni d’estate, quando bastava un cortile sotto casa e un pallone tra le gambe per correre e sudare e sbucciarsi le ginocchia per tutto il pomeriggio fino a quando la mamma, una qualsiasi, non cominciava a urlare: “è pronta la cena”. Scirea rappresentava il calcio di provincia e di oratorio che si era fatto grande. Era nato a Cernusco sul Naviglio, profondissimo hinterland milanese, e non se ne è mai dimenticato. Una sera, dopo il primo scudetto vinto alla Juve, lui e i suoi compagni hanno festeggiato fino alle 6 di mattina in una discoteca del centro. Quando è uscito dal locale, ha visto davanti a sé tre operai che stavano cominciando a lavorare. Lui ha abbassato la testa, pensato a suo padre e si è sentito in colpa: non era quello l’uomo che voleva diventare. Il materiale a disposizione bastava e avanzava. Ma la storia di Gaetano Scirea diventa ancora più bella e disperata se a raccontarla è Federico Buffa, il migliore di tutti. Chi ha visto le due puntate del suo “Buffa Racconta” ha detto che gli ultimi 15 minuti sono un pugno nello stomaco. Non potrebbe essere altrimenti, la storia di ciò che è successo a Babsk, in Polonia, il 3 settembre 1989 non cambia. Il resto sono lacrime e nostalgia per un calcio a bassissima definizione, che manca a molti, anche a chi è più giovane e di queste storie ha solo sentito parlare.

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