Pugni chiusi a Mexico City

Gino Cervi

Cinquant'anni fa Thomas C. Smith conquistò la medaglia d'oro ai giochi olimpici di Città del Messico 1968. Un racconto

Ottobre 2008, Santa Monica College, California. Il professor Smith guarda sconsolato Douglas che sale con fatica le scale. Insieme ai suoi diciott’anni Douglas si porta addosso almeno un quintale di ciccia. I pantaloni calati bassi a mezzo culo e in testa un cappellino rosso da baseball di traverso. Sbuffa sugli scalini neanche fossero appigli di un’arrampicata di sesto grado. Uno sforzo enorme. Salendo, e ansimando, non smette mai però di infilare la mano nel sacchetto di patatine per poi portarsela alla bocca.

 

Un gradino, una chips, un gradino, due chips.

 

Il professor Smith sta aspettando Douglas davanti alla porta del suo studio, al secondo piano del building 4 del Santa Monica College. Lo guarda arrivare e scrolla il capo. Se la sarebbe immaginata diversa la sua America, quarant’anni fa. Il professor Smith è al suo ultimo anno di insegnamento al Santa Monica College. Ne sono passati ormai parecchi, quasi trenta, da quando ci arrivò per la prima volta. Una vita fa. Ne ha visti di studenti, non solo in classe e in biblioteca, ma anche al campo sportivo, sulla pista di atletica.

 

Il professor Smith insegna sociologia dello sport. Ma è un prof un po’ speciale. La sua materia non l’ha imparata soltanto sui libri. Sta aspettando Douglas per il primo incontro di preparazione della tesina di metà anno. Douglas, anzi Hot Doug, come lo chiamano i compagni, per la sua irrefrenabile passione per il fast food, è un tipo sveglio. La lentezza e l’impaccio con cui affronta le scale, e qualsiasi altra attività fisica, non gli rendono giustizia. Il suo corpo sbuffa nello scavalcare anche un solo gradino, ma la sua testa corre veloce come un centometrista. Il professor Smith se n’è accorto fin dalle prime lezioni. Doug capisce al volo, non gli scappa nulla e sa sempre rispondere a tono, spesso in modo divertente, qualche volta in modo fin troppo sfacciato.

 

«Eccomi, prof! Com’è?».

 

«Come com’è? Non avevamo appuntamento alle undici? Sono le undici e mezza!».

 

«Eh prof, mi scusi. Dovevo terminare la mia sessione mattutina di addominali... Sa com’è, ci tengo alla forma...».

 

«Come no, si vede! Le chips sono il tuo integratore, eh?».

 

«Le chips? Quali chips?», risponde Doug passandosi le dita unte sul di dietro delle grosse braghe nere.

 

«Lascia perdere, Doug. Basta scherzare. Entra».

 

Lo studio del professor Smith è pieno di libri. Dietro la scrivania, appesa al muro, c’è una foto incorniciata. È l’unica in tutta la stanza. È una foto di una premiazione. Ci sono due atleti di colore, hanno indosso la tuta USA. Entrambi a testa china, alzano il pugno, un pugno guantato di nero: quello sul gradino più basso, il sinistro; il destro, quello sul gradino più alto del podio, il vincitore. Tutti e due sono scalzi.

 

Una foto vista mille volte. Ma Doug la guarda come se la vedesse per la prima volta.

 

«Prof, bella quella foto! Chissà perché ma mi sembra di averla già vista. Ma che stanno facendo quei due?».

 

Il professor Smith guarda Doug da sopra gli occhiali.

 

Possibile che non sappia? Sì, possibile...

 

«Premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico. 16 ottobre del 1968».

 

«Sì, ho capito. Ma perché stanno così? Perché fanno il pugno e hanno un guanto nero? E sono a piedi nudi?».

 

«Perché protestano».

 

«Protestano? Hanno vinto! Perché protestano?».

 

«Doug, apri bene le orecchie. Non c’entra aver vinto o perso. Anzi, il fatto che avessero vinto e che tutto il mondo li stesse guardando, lì, sul podio, era proprio la migliore occasione per far sapere come la pensavano».

 

«Come la pensavano su cosa?».

 

«Doug, ne abbiamo parlato solo qualche settimana fa, a lezione, ricordi? 1968. La lotta per i diritti civili, contro la discriminazione razziale, contro la guerra in Vietnam. Le rivolte degli studenti nelle università, Berkeley, Parigi. Dopo di allora, il mondo non sarebbe stato più come prima...».

 

«Sì, ma che c’entra: questi stanno correndo alle Olimpiadi...».

 

«Certo. E correvano forte, fortissimo. Già nelle semifinali avevano tutti e due migliorato il record dei Giochi. E in finale, quello che poi vinse – lo vedi quello col numero 307? – fece il record del mondo, 19 secondi e 83 centesimi, primo atleta a scendere sotto i 20 secondi nei 200 m. Dopo di lui, ci sarebbero voluti anni per fare di meglio... Però le gambe da sole non bastano, ci vuole la testa. Tu dovresti saperlo, mi pare...».

 

«Sì, sì, le gambe, la testa... Però continuo a non capire. Record del mondo, medaglie e invece di festeggiare e cantare l’inno, se ne stanno lì, incazzati, a piedi nudi e col pugno nel guanto nero...».

 

«Ehi Doug, guardali bene. Quei due incazzati sono due afroamericani. Come te, come me. Fermati e pensa. Forse adesso immaginare un presidente degli Stati Uniti afroamericano non è più un sogno, anzi sono sicuro che potrebbe succedere molto prima di quanto ci immaginiamo. Ma pensa a quel 1968. Pensa che soltanto sei mesi prima che quei due vincessero le Olimpiadi, a Memphis, avevano ammazzato Martin Luther King...».

 

«Sì, ma il guanto, il pugno, i piedi nudi...».

 

«Era per attirare l’attenzione di milioni di persone. Per una volta gli Stati Uniti non avrebbero potuto mostrare a tutto il mondo la bravura dei loro campioni afroamericani, come se fosse la bandiera a stelle e strisce, per poi l’indomani continuare tutto come prima: coi fratelli neri sempre discriminati e trattati come cittadini di serie B. E sai, Doug: quei due ci riuscirono davvero. I loro pugni alzati divennero un simbolo, come la faccia di Che Guevara che avevano fatto fuori giusto un anno prima... Non fu facile farlo e per questo ne pagarono le conseguenze...».

 

«E cioè?».

 

«Vennero immediatamente espulsi dai Giochi Olimpici. Il presidente del Comitato Olimpico, Avery Brundage, era un vecchio arnese ancora convinto che lo sport fosse soltanto una specie di esercizio militare, di disciplina: più veloce, più alto, più forte. Tre giorni dopo Brundage dichiarò che quei due, col loro gesto, avevano infangato il sacro significato delle Olimpiadi. Già: perché secondo Brundage lo sport non doveva avere nulla a che fare con la politica... Poi ci pensò anche la Federazione statunitense a squalificarli e a non riconoscere il loro successo. La carriera sportiva di entrambi finì in quello stesso istante, proprio nel momento in cui decisero di alzare il pugno al cielo, e di abbassare lo sguardo, invece di fissare ispirati e commossi lo sventolare della bandiera americana...».

 

«Ehi, però, ci voleva del fegato... E come andò a finire?».

 

«Finì che si trovarono da soli. Molti li presero di mira, li insultarono, li minacciarono. Altri si dimenticarono di loro, e fecero come se non esistessero più. Pochi furono quelli che presero le loro difese. Il mondo dello sport non era ancora pronto per accogliere le libere scelte di pensiero dei suoi campioni. Ti ricordi? In quegli stessi anni anche il grande Muhammad Alì venne arrestato, processato, e poi squalificato per quattro anni per aver rifiutato la chiamata alle armi per andare a combattere in Vietnam. “Io non ho nulla contro i viet-cong: nessuno di loro mi ha mai chiamato negro!», diceva Alì, con i suoi occhi stralunati e le parole più veloci di quelle di un rapper».

 

«Sì! Grande Alì! Ho visto un video in cui diceva “Ieri sera ero così veloce che mi sono alzato dal letto, ho attraversato la stanza, ho girato l’interruttore e sono tornato sotto le coperte prima che la luce si fosse spenta”. Fantastico! Neanche Snoop Dogg saprebbe fare di meglio...».

 

«Ok, ora basta Doug. Parliamo della tesi che devi preparare per fine mese... Cosa mi dici?». 

«Le dico che questo è un bell’argomento, no? I campioni dello sport e la società in cui vivono. Che dice prof? Potrei cominciare da qui, anzi da quei due lì, a piedi nudi e col pugno e il guanto alzato al cielo...».

 

«Perché no? Mi sembra una buona idea... Vediamoci nel pomeriggio e cominciamo col preparare una bibliografia. Alle 4 in biblioteca. Mi raccomando: puntuale, stavolta».

 

«Ci conti, prof! Ci sarò! Ehi, ma è mezzogiorno passato: in effetti mi pare che il mio stomaco mi voglia dire qualcosa... Buon appetito, prof! Ci vediamo più tardi».

 

«Ehi Doug! Non sarebbe ora di smetterla con hamburger, ketchup e patatine?».

 

«Tranquillo prof! Sono a dieta... e ho perso mezzo etto in una settimana. È il mio record personale...», disse Doug alzandosi rumorosamente dalla sedia e dirigendosi verso la porta. «A proposito, prof: gran tempo quel 19 e 83. Complimenti! E pensare che se non avesse alzato le braccia dieci metri prima del filo di lana avrebbe potuto fare anche molto, ma molto meglio...».

 

Il professor Smith, senza levare il capo dal libro che aveva aperto, alzò lo sguardo da sopra gli occhiali e inquadrò Doug oltre la porta. Lo vide che si allontanava nel corridoio, ciondolando nelle sue braghe larghe, e che lo salutava alzando il pugno destro.

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