Thomas Müller e la libera "ignoranza" al potere
Torna la Champions League e c'è Bayern Monaco-Besiktas. Il bavarese non ha un gran dribbling, non ha un tiro eccezionale, eppure è il calciatore più completo nel panorama mondiale. Storia di un anarchico incapace di essere normale
C'era un bambino che vagava per il terreno di gioco, che non stava mai fermo. Lo potevi trovare al centro del campo, poi spostato sulla destra, pochi secondi dopo avanti a tutti o dietro a far da guardia al portiere. Correva senza una meta, senza neppure un senso, quando il pallone vagava lontano, nelle retrovie. Si isolava, quasi la vicinanza degli avversari lo disturbasse. Ma quando la palla si avvicinava all'area avversaria, ecco che improvvisamente quelle gambette fini e quelle spalle secche diventavano presenza, quasi una sentenza: gol. Quel bambino si è fatto nel frattempo uomo, ma nulla è cambiato. Perché lui continua a correre apparentemente senza meta, senza neppure un senso, eppure, quando il pallone arriva lì dove è pericoloso che arrivi, ecco che quell'assenza diventa una maglia numero 25, quel vagare scostante diventa il movimento giusto, la palla si trasforma spesso in gol, a volte in assist, quasi sempre in un pericolo. "La palla vaga nell'area di rigore, appare dal nulla lui ed è 1-3". E ancora: "Attenzione, palla che rimbalza sulla trequarti, improvvisamente un tiro sotto l'incrocio e fa 1-4". Era il 10 ottobre del 2009, era il Bayern Monaco di Luis Van Gaal e quell'apparizione nel 1-5 in casa del Borussia Dortmund aveva un numero, il 25, un nome, Thomas, un cognome, Müller, e un modo di giocare che in pochi capivano ma che al tecnico olandese piaceva un sacco, nonostante avesse 20 anni e quella fosse la sua prima stagione in Bundesliga (o quasi, dato che l'anno precedente aveva visto il campo quattro volte). Dove gioca Müller?, gli chiesero a fine partita. "Al centro, ma anche a destra e a sinistra". Qualche mese dopo ribadì il concetto. "Con me Müller gioca sempre". Pausa, sorriso, ammissione di impotenza: "Molto spesso dove vuole lui”.
Müller è da una vita che gioca dove vuole lui, non ha mai smesso, forse perché il suo calcio non è altro che questo, una delle poche eccezioni a una schiera di giocatori infinita che si adeguano a un ruolo, a un diktat tattico. Non lui.
"Thomas pareva che non giocasse al pallone, sembrava facesse altro, a volte qualcosa simile alla corsa campestre: non desiderava il pallone, non apriva spazi, non seguiva quello che gli si diceva. A un certo punto, chissà come, la palla gli si catapultava addosso, lui la toccava e segnava", disse Peter Hackl, primo allenatore del calciatore bavarese. Müller giocava al TSV Pähl, squadra di Pähl am Ammersee, duemila anime disperse nelle colline bavaresi a nemmeno una cinquantina di chilometri da Monaco di Baviera. "Thomas aveva un talento, ma la sua forza era un'altra. Quando giocava non pensava e per questo era imprevedibile. La sua forza era l'ignoranza di qualsiasi regola calcistica”.
Ignoranza calcistica messa però a servizio della squadra. "Thomas non era il più forte che ho allenato", disse alla televisione tedesca il malese Lim Teong Kim, allenatore delle formazioni giovanili del Bayern Monaco dal 2001 al 2013, "ma in assoluto era quello che giudico più determinante, non solo per i risultati, soprattutto per i compagni". Non un fenomeno, scoordinato e inelegante, "ma fenomenale per capacità di farsi trovare al posto giusto nel momento giusto". Capacità di leggere l'azione, si direbbe, peccato che sia tutto il contrario. "Thomas non è quel tipo di giocatore che sa di tattica, che sa come una fase offensiva si evolve. Non credo abbia mai ragionato una volta in vita sua di pallone, lui è istinto, puro istinto, non conoscenza". Un istinto che lo ha portato prima a vestire la maglia della più importante squadra di Monaco, poi la casacca della Nazionale, infine ad alzare la Coppa del mondo. "Stilisticamente non era un granché e neppure tecnicamente, nonostante non avesse punti deboli evidenti. Ciò che lo contraddistingueva era un enorme desiderio di riuscire, che molto spesso è tanto importante quanto le abilità individuali se vuoi arrivare lontano nel calcio", disse al Sunday Times Kim.
Müller ha un cognome che in Baviera può essere un macigno, soprattutto per chi porta le effigi dei Roten: quello di Gerd. Attaccante, goleador, recordman di presenze, seicentoundici, e gol, cinquecentosessantanove, in sedici stagioni a Monaco nel corso delle quali ha vinto tutto: un Mondiale e un Europeo in Nazionale, quattro campionati, tre Coppe dei Campioni, oltre a una Coppa Intercontinentale, una Coppa delle Coppe, coppe nazionali e regionali. Una leggenda bavarese. "Un giorno mi si avvicina un ragazzino e mi fa: 'Maestro, io sono un suo ammiratore, ma ci sarà un altro grande Müller nella storia del Bayern. Io'. All'epoca aveva neppure sedici anni e io mi misi a ridere. Beh, ce l'ha fatta", disse Gerd, il giorno dopo il successo della Mannschaft nella Coppa del Mondo del 2014.
Thomas Müller con la Coppa del Mondo (foto LaPresse)
Gerd sapeva fare solo una cosa: segnare, ma lo faceva sempre. A Monaco, tra gli anni Sessanta e i Settanta se Franz era il Kaiser, lui era il Bomber der Nation, dove Nation non era soltanto la Germania, ma soprattutto il suo Land, la Baviera. Un eroe popolare, ancor più amato del grande capitano, perché goffo e all’apparenza normale, ma con un fuoco dentro che bruciava per la maglia dei Roten. Gerd era l’evidenza che tutto potesse essere possibile, anche che un ragazzo sgraziato e non eccezionale tecnicamente riuscisse a diventare il più forte attaccante del mondo: una rivoluzione al passo con quei tempi rivoltosi che avevano contagiato pure la pacifica Baviera. “Müller non dribbla, non ha un gran destro e neppure un gran sinistro, non è un perfetto colpitore di testa, eppure trovatemi un attaccante che sia più decisivo di lui. Se ci riuscite, ditemelo che lo voglio vedere”, disse Udo Lattek, allenatore del Bayern tra il 1970 e il 1975, l’epoca del Müller più prolifico.
Thomas non è Gerd. Non gli assomiglia né come giocatore, né come posizione. E’ altra cosa, tutt’altro tipo di giocatore. Però di Gerd ha la stessa assenza di pregi calcistici basilari, che lo rendono qualcosa di diverso rispetto alla norma, che lo rendono eccezionale, in quanto eccezione al solito calcio. Gerd aveva quello che in gergo viene chiamato il fiuto del gol, ossia la capacità di capire cosa fare per segnare. Thomas, anche, ma di meno. La sua peculiarità è un’altra ed è dinamica: l’abilità di inserirsi, di tagliare il campo alla ricerca del pertugio giusto per sfruttare il gioco offensivo della squadra. Gerd presidiava l’area, da lì si muoveva poco e male, ma quando una palla vagava davanti alla porta “c’era solo una certezza, che quella avrebbe prima o poi toccato il suo piede e avrebbe gonfiato la rete”, ricordò Uli Hoeneß, centrocampista di quel grande Bayern. Thomas agli spazi ristretti preferisce quelli aperti, agli ultimi sedici metri preferisce tutti gli altri. Non ha un ruolo, è uno zingaro del campo, uno che dove lo metti sta e che dovunque lo metti trova il modo di fare quello che vuole, fregandose amabilmente di ruoli e tattiche. “Ho giocato come attaccante, come trequartista, all’ala, al centro, ho fatto la mezzala a centrocampo. Qual è il mio ruolo? Non lo so, a me basta giocare”, disse dopo il suo primo gol in Nazionale durante il Mondiale di Sudafrica 2010.
E non lo sa davvero dove giocare. Appena arrivato al Bayern, Pep Guardiola, pensava che il suo tiki taka, il modo di giocare basato su un possesso palla ossessivo fatto di passaggi veloci e triangolazioni ravvicinate, potesse essere esportabile ovunque e con qualunque interprete. Gli bastarono pochi mesi per capire che rifare il Barcellona in Germania era più utopia che speranza e pochi allenamenti per capire che Müller avesse “qualità induscitibili”, ma un altrettanto grande tendenza all’anarchismo: “E’ da luglio che lavoro su un progetto, ma ogni tanto è necessario fare un passo indietro e ripartire, Thomas va sfruttato bene, non gli si può chiedere di fare quello che non può”. E quello che non può lo rivelò sempre Guardiola pochi mesi dopo il suo addio al Bayern: “Müller ha un solo problema: in campo deve fare quello che si sente, se gli imponi qualcosa fa fatica a farlo”.
E così Pep archivia il 4-3-3 di catalana memoria e gli disegna attorno un nuovo sistema di gioco: due mediani, due trequartisti, un centravanti e Müller libero di fare il Müller alle spalle dell’attaccante, al centro, a destra oppure a sinistra. Dal 2013 al 2016, con Guardiola in panchina, Thomas non segna mai meno di venti gol a stagione. Il Bayern vince tre campionati, due coppe di Germania, una Supercoppa Uefa e un Mondiale per club, fallendo però il grande obbiettivo della Champions League. Dopo l’addio del tecnico spagnolo, Müller dirà: “Per tutto il giorno pensava a come poteva spostare i giocatori di due, tre metri in una certa situazione sul campo per trovare una soluzione perfetta. Era pazzesco. In senso positivo”. La Faz commenterà: “Il merito di Guardiola è stato quello di aver trovato l’esatta dimensione di Müller: l’ha reso libero di giocare come meglio crede, responsabilizzando la sua incapacità di avere un ruolo preciso. Ci sarebbero volute un altro paio di stagioni per renderlo un campione”.
Campione Müller non lo è e non lo sarà forse mai. In ogni caso è al momento il calciatore più completo nel panorama del calcio mondiale. Centosessantotto gol in quattrocentotrentatré partite sono un palmares che a ventotto anni in pochi possono vantare, per lo più se non sono punte di ruolo e se a questi si sommano un centinaio di assist, i più ottimisti ne contano centoquattro, quelli meno invece novantasei. Oltre a una copertura quasi totale dei ruoli in campo: esterno destro, esterno sinistro, centrocampista centrale, trequartista, attaccante esterno su entrambe le fasce, prima punta e falso nueve o come si vuole chiamare ora l'attaccante di movimento. Perché questa è la sua caratteristica: il movimento. In terra tedesca lo chiamano Raumdeuter, che, con una dozzinale traduzione, altro non sarebbe che l'occupatore di spazi, il divoratore di spazi. Non centrocampista o attaccante, un nuovo modo di stare in campo che riflette un modo strano e semplice di stare al mondo: quello di chi non vuole avere problemi e se ne frega beatamente di tutto.
Disse Joachim Löw, commissario tecnico della Nazionale tedesca: "Thomas è pazzesco, è come se per lui la pressione non esistesse, è come se giocasse per strada". Era il Mondiale brasiliano e Müller rispose: "Non ho mai giocato a calcio per strada, c’era troppo traffico, troppe macchine parcheggiate". In quell'edizione giocò 7 partite, segnò cinque gol, tre nella partita inaugurale contro il Portogallo di Cristiano Ronaldo, uno in semifinale contro il Brasile. In finale giocò benissimo, un suo taglio in mezzo al campo portò via il marcatore a Mario Götze che segnò la rete decisiva ai supplementari e regalò la Coppa del Mondo ai tedeschi. A fine partita la Fifa premiò Messi come miglior giocatore del torneo. Una giornalista, in un didascalico tedesco, gli chiese se condivideva la scelta, lui rispose in grossolano bavarese che "sinceramente non me ne frega un cazzo! Siamo campioni del mondo!". L'amico ed ex compagno di squadra Bastian Schweinsteiger, lo guardò e rise, Müller, non contento continuò: "Puoi dire alla giuria che quella 'Scarpa d'oro' di merda se la possono mettere nel culo". Alla traduzione ci pensò Schweini che addolcì molto la frase in un tedesco comprensibile.
Jupp Heynckes, attuale tecnico del Bayern Monaco, a gennaio del 2012, durante la sua precedente esperienza sulla panchina bavarese (la terza dopo quella tra il 1987 e il 1991 e nel 2009), raccontò che Müller "a volte è incomprensibile, sembra un ragazzino di dieci anni anni, gioca al calcio come se non avesse la minima conoscenza delle regole tattiche e vive la vita in modo stralunato, in un mondo completamente suo". Heynckes un anno dopo corresse leggermente il tiro: "La cosa più stupefacente di Thomas è che vive il calcio con una tranquillità incredibile, se ne frega della tattica, forse neppure la conosce, si affida al suo istinto. E fa bene, sempre".
Müller non ha un dribbling efficace, non ha un tiro eccezionale, eppure corre e si danna, pressa, recupera palloni, lascia l'impostazione a chi la sa fare e si getta avanti. Trova il pertugio, molte volte lo crea, ci si butta dentro e se i compagni lo servono fa quello che sa fare: essere decisivo. O con un gol, o con un assist, purché ravvicinato. "Un lancio di quaranta metri? Non gliel'ho mai visto fare", diceva Pep Guardiola. Che poi aggiunse: "Per fortuna ... per fortuna sa qual è la sua dimensione, è una persona con i piedi per terra, sa dove stare".
E Müller sa davvero dove stare. In campo, ovunque, nella vita, solo nella sua Baviera, il suo luogo nel mondo. Il Bayern era la sua squadra del cuore, la sua unica passione. La scorsa stagione il Manchester United di José Mourinho offrì 85 milioni di sterline per lui. Thomas, informato dalla società disse che "non se ne parla". L'offerta fu rifiutata. Per la seconda volta. Già nel 2014 ci provarono, ma la trattativa non partì neppure per il secco rifiuto del giocatore. Nel 2015, alla televisione tedesca raccontò del suo rapporto con la Baviera. "Sono nato qui e qui voglio restare. Sono un bavarese che ama la sua terra. Qui ho tutto quello che mi serve: Monaco, le sue colline, i miei cavalli. L'idea di trasferirmi non mi è mai passata per la testa. Cosa può fare un campagnolo in città? Stare male". E di stare male non ne ha voglia. Anche perché l'amore è ricambiato. Per i bavaresi Müller è uno di loro, non un dio, come era Maradona a Napoli, non un mito, come era Ronaldo, quello vero, all'Inter, piuttosto un'immagine, l'immagine stessa della Baviera, un'entità per conto suo, che gioca un calcio che non esiste altrove, fatto di praticità, di immediatezza, di rispetto-non rispetto delle regole, di distacco superficiale, di fede profonda, quella per la maglia dei Roten, quella per la Baviera.
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