Luciano Spalletti (foto LaPresse)

Spalletti e la (ri)scoperta di un'ovvietà: in Italia vince chi ha la difesa più forte

Leo Lombardi

Da dieci anni a questa parte la regola è sempre la stessa: lo scudetto va a chi prende meno gol. L'Inter in testa alla classifica non regala spettacolo ma offre solidità. E anche se la strada è ancora lunga una direzione è stata finalmente intrapresa

Da dieci anni a questa parte la regola è la stessa: vince lo scudetto chi ha la difesa più forte. Non potrebbe essere altrimenti, in un campionato che ha sempre preferito la prosa alla poesia, la sostanza alla fantasia, la distruzione alla creazione. Ogni nostro successo, poi, è stato costruito sulla solidità della retroguardia, basti ricordare il titolo mondiale del 2006. Due i gol incassati dall'Italia nelle sette partite che hanno portato al trionfo di Berlino. E che gol, poi: un'autorete di Zaccardo contro gli Stati Uniti e un rigore di Zidane in finale contro la Francia. Casualità e palla inattiva, su azione mai un patimento. Una lezione che anche Luciano Spalletti ha fatto sua, riportando l'Inter dove nessuno avrebbe mai osato immaginare, neppure il tifoso più fideista. Così, dopo sedici giornate, non soltanto i nerazzurri hanno quasi raddoppiato i punti della passata stagione (da 21 a 40), si trovano al primo posto e sono l'unica squadra a non avere mai perso, ma sono anche quella con la difesa più forte. Vero che le dieci reti incassate rappresentano un primato da condividere con Napoli e Roma (che ha una partita in meno), ma cifre e vetta della classifica danno - per ora – ragione a chi in estate aveva indicato nel tecnico l'acquisto più azzeccato dei nerazzurri.

 

In effetti c'è di che stupirsi a vedere che cosa sia diventata l'Inter un anno e quattro allenatori dopo. La passata stagione le scelte nerazzurre erano state un motivo di gioia solo per gli avversari. In estate l'addio burrascoso di Roberto Mancini, a seguire l'infelice approdo dell'inadeguato Frank de Boer, l'interregno di Stefano Vecchi prima del casting per scegliere Stefano Pioli, fino a richiamare ancora Vecchi a disastro acclarato. Fuochi d'artificio dirigenziali che avevano finito per sconvolgere in maniera definitiva una squadra già confusa di suo. Per questo tutti hanno approvato quando, una volta tanto, l'Inter ha deciso di fare le cose con una certa logica, cominciando da una scelta convincente in panchina, con la speranza di vederla divenire vincente.

 

Una scelta che non poteva non passare da Spalletti. In Italia, è vero, non ha vinto un titolo che sia uno. Solo la Russia è stata benigna con lui, due volte campione con quello Zenit San Pietroburgo dove oggi siede Mancini. Ma è altrettanto vero che Spalletti non ha mai avuto l'opportunità di allenare una squadra attrezzata, con gli uomini giusti per poter ambire a qualcosa di importante. La stessa Roma, sua casa in due esperienze differenti, era forte ma non tale da poter competere con la Juventus, al punto che i tanti secondi posti avevano il sapore del massimo realizzabile possibile. L'Inter ha rappresentato (e rappresenta) questa opportunità. C'era da togliere le ammaccature dei tempi recenti, da valorizzare una campagna acquisti apparsa di profilo più basso rispetto agli spendaccioni vicini di casa e da lucidare i gioielli di famiglia. Spalletti lo ha fatto, con quelle maniere apparentemente disincantate ma irremovibili che lo hanno sempre accompagnato al momento di decidere sul serio: chiedere a Francesco Totti, per esempio. Ha ridato motivazioni a chi c'era già, ha indicato una prospettiva a chi è arrivato. Oggi l'Inter non regala spettacolo ma, in cambio, offre solidità. L'ultima ad accorgersene è stata la Juventus, cui i nerazzurri hanno lasciato una traversa di Mandzukic e nulla più.

 

A chi piange sullo spettacolo versato occorre quanto faceva il sempre rimpianto José Mourinho. Per vincere, il pullman era sempre parcheggiato a difesa dell'area mentre là davanti ci pensavano Ibrahimovic prima e Milito dopo a metterla dentro. E il portoghese lo faceva forte di un gruppo dal tasso tecnico decisamente più elevato di quello attuale e con avversarie non agguerrite come quelle odierne. Da qui a dire che Spalletti, alla soglia dei 60 anni, vincerà il proprio primo scudetto la strada è lunga assai, ma una direzione - perlomeno - è stata finalmente intrapresa.

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