Juan Martin del Potro (foto LaPresse)

Del Potro, racchetta de oro

Beppe Di Corrado

E’ caduto, s’è rialzato, ha la forza di non cedere anche quando sembra che sia finita. Lo sportivo argentino amato come Maradona

Sul centrale di Wimbledon, ma non a Wimbledon nel senso dei Championship, Juan Martín del Potro indossava una maglia celeste: 4 ore e 26 minuti di gioco, 19-17 al meglio del terzo set, ovvero la partita più lunga in un due su tre mai giocata. Semifinale del torneo olimpico di Londra. Persa. Delpo strinse la mano a Roger Federer e si andò a sedere al suo posto: l’asciugamano in testa, una bottiglietta con un liquido rosastro nella mano che spuntava appena sotto. Triste. Ma non solo. Perché c’era un terzo di stadio che stava con lui. Cinque bandiere argentine, una ventina di maglie più o meno originali della nazionale di calcio argentina. E il coro: olé, olé, olé, olé-olé Delpo-Delpo. Ora attenzione: non è che sia una novità. Il tifo da stadio nel tennis l’hanno inventato i brasiliani e gli argentini l’hanno copiato. Ma lì, il caso era il luogo. Perché quel centrale, qualunque cosa succeda e qualunque torneo ci sia, può abbandonare il bianco (cosa fatta con lo sconcerto dei puristi), ma sta con Federer al 100 per cento. Unica eccezione è se gioca contro Andy Murray, cosa accaduta in finale di quel torneo. E comunque in quel caso erano 50 e 50, che fa assumere al 33 per cento di pubblico per Del Potro in semifinale i contorni dell’eccezionalità assoluta. E non si sa perché, ma è così: Del Potro trascina. Unico giocatore oltre a Federer e Nadal ad avere un pubblico ovunque sia. Sono gli argentini in libera uscita o in pellegrinaggio o in stanziale trasferimento in altro paese. E però ci sono gli altri: indigeni e no che stanno con lui. Perché Del Potro piace. Perché Del Potro trascina. Perché Del Potro è diverso, evidentemente. Unico caso di sportivo argentino a essere amato in maniera maradoniana.

 

Ne abbiamo fatto a meno per troppo tempo, ecco. Quattro operazioni chirurgiche, il polso maledetto che non funziona, hanno privato il tennis e lo sport mondiale di uno che a un certo punto aveva interrotto il duopolio Roger-Rafa, Rafa-Roger. Fu agli Us Open del 2009. Otto anni fa giusti. Era testa di serie numero sei e non aveva mai vinto uno Slam. Diede 6-2, 6-2, 6-2 a Nadal in semifinale e si presentò in finale contro Federer. La cronaca spiccia ricorda questo: “Avvio lento per Del Potro, che ha ceduto piuttosto nettamente il primo set. Sotto per 3-5 nel secondo set, è arrivata l’inversione di tendenza: l’argentino si è portato sul 6 pari, è salito di livello nel tie-break riuscendo perfino a innervosire Roger Federer. E ha vinto con merito il secondo set. Nel terzo set Del Potro ha subito strappato il servizio all’avversario, Federer è immediatamente riuscito nel contro-break, per poi mantenere il servizio e guadagnare quindi un secondo break immediato che gli ha consentito poi di vincere 6-4. l quarto set ha continuato a offrire grande tennis, con Del Potro a combattere tenacemente colpo sul colpo fino a strappare il servizio e portarsi sul 4-2. Federer non si è disunito. Ha assorbito l’irruenza argentina dell’avversario con un calma degna di un altopiano sudafricano (la sua seconda nazionalità) e tra ace e passanti si è riportato sul 5-5. Ma Del Potro non ha ceduto, si è portato sul 6 pari e alla fine ha vinto il tie-break per 7-4. E’ stata la svolta del match, perchè nel quinto set Federer aveva esaurito le batterie. Del Potro, in lacrime, ha dedicato la vittoria all’Argentina, e ai tanti argentini presenti sulle tribune dell’Arthur Ashe Stadium. ‘Avevo due sogni, quando sono arrivato qui’, ha detto un felicissimo Del Potro a fine match . ‘Il primo era vincere il torneo, il secondo era diventare grande come Federer. Uno si è avverato, ma per l’altro dovrò lavorare ancora duro. Roger è un campione vero, ha lottato fino all’ultimo punto. Io sono stato bravo a riprendermi dopo una partenza nervosa, la scorsa notte non ho dormito per la tensione’”.

 

In semifinale agli Us Open contro Nadal dopo aver battuto Federer. Con loro, l'unico ad avere un pubblico ovunque sia

Oltre alla sobrietà della cronaca fu una partita esaltante, quella che oggi Delpo definisce ancora la sua migliore. E non è solo per il fatto che sia rimasta quella che gli ha regalato l’unico Slam. E’ per il gioco, per i colpi, per la grinta, per la forza, per la tattica, per la solidità morale e psicologica. E pure per il contesto. Lo stadio più grande del tennis mondiale che di solito è una Roger Arena, fu suo. Quando recentemente gli hanno chiesto perché ovunque vada è amato, ha risposto così: “Credo che alla gente piaccia la mia storia. Sono stato fuori per molto tempo. Sto provando a risolvere i problemi al polso e non mollo mai. Ovviamente, tutti sanno com’era il rovescio del vecchio del Potro. Ora corro molto durante gli incontri. E, sì, mi piace essere cool. Questo sono io”. E’ vero che la sua storia piace. Non ne ha parlato spesso, anzi di suoi racconti se ne ricorda in realtà uno solo, fatto al quotidiano argentino la Nación qualche anno fa: giocava a calcio nel Tandil, ma i genitori dell’altra squadra gli chiedevano un documento di riconoscimento perché calciava troppo forte. La prima racchetta la prese in mano in attesa di cominciare un allenamento a calcio. Perché non sapeva che cosa fare. Gli piacque e cominciò a giocare fino a quando, a 12 anni si iscrisse a un torneo sudamericano che si giocava in contemporanea con un torneo di calcio nazionale. “Il torneo di calcio era a Córdoba, il campo da tennis in Brasile e non avevo mai preso un aereo. Mi hanno dato l’ultimo posto, c’erano tre o quattro persone che viaggiavano. E’ stato il mio primo viaggio in aereo. Per me, essere in grado di volare e vedere tutto dall’alto è stato impressionante. Il rumore delle turbine, vedere l’ala… è stato un momento spettacolare”. Vinse il torneo di tennis, ma continuò con il calcio come primo sport e con il tennis come secondo. Il cambiò arrivò dopo i 16 anni. Una carriera immediata, una crescita fisica e tecnica mostruosa, la classifica scalata, qualche intemperanza come una lite con Nalbandinal e un’offesa in campo a Nadal. Poi quel 2009 pazzesco, finito con gli Us Open, Federer, il centrale di New York e tutto il resto. Poi? Ecco, poi. Poi il polso destro. Da numero 4 del mondo a numero 258 a fine 2010. “E’ stata dura, triste. Ho trascorso diversi mesi passando sa un medico all’altro senza avere una diagnosi precisa, sentendomi dire cose che non erano vere. Avevo vinto gli Us Open, ero il numero 4 del mondo e volevo lottare per il numero 1 e improvvisamente mi sono ritrovato in una situazione che non immaginavo. Ho avuto un grosso intoppo lungo la strada e questo mi ha aiutato non solo nel tennis, ma anche nella vita. Ho capito di chi valesse la pena fidarsi e di chi no. Nel cuore ho gli amici, la mia famiglia e il mio gruppo di lavoro, che si interessavano di come stava Juan come persona. In quello che facciamo è difficile rimanere con i piedi per terra e rendersi conto che ci vuole tempo. Franco (Davin, il suo allenatore), Martiniano (Orazi, formatore) e il mio medico sono stati quasi un anno senza lavorare ma sono ancora qui. Lo apprezzo molto. Oggi ci unisce molto più il legame umano che quello professionale. Anche se ci sono stati dei giorni in cui mi svegliavo e dicevo: e se non posso più prendere una racchetta? Devo anche essere grato a mia madre per avermi mantenuto alle scuole dell’obbligo così da avere la porta aperta per proseguire gli studi e fare qualsiasi altra cosa. Mi piace essere argentino, mi piace il modo di vivere le cose che abbiamo. Quando vado in un torneo fuori, non so se la parola giusta è invidia, ma tutti mi guardano come a dire ‘vorrei avere il tuo seguito’. Recentemente, a Wimbledon, il campo sembrava impazzire, giocavo contro il numero uno del mondo. Amo sentire ‘Delpo Delpooo’ in tutti i campi, lo amo. Non sento l’atmosfera pesante, al contrario, mi sembra che sempre più persone mi seguano”.

 

Gli inizi col calcio. La bellezza del suo tennis è un colpo piatto, dai 198 cm di un corpo che non avrebbe potuto essere quello di un calciatore

Succede questo, appunto. E succede sempre. Quando era un possibile numero uno, quando è entrato in crisi, quando ha cominciato a riprendersi e ora che è di nuovo arrivato in fondo a un torneo del Grande Slam. Perché questo Us Open che si sta giocando adesso l’ha visto fare due cose eccezionali: vincere gli ottavi di finale contro Thiem e poi i quarti contro Roger Federer, il quale a fine partita ha detto: “Delpo ha giocato molto meglio di me. Merita di andare avanti lui”. Però succede anche per un altro motivo: Del Potro è uno di quei giocatori che negli ultimi dieci anni sono stati protagonisti di rimonte pazzesche. Come vincere l’argento olimpico in Brasile nel 2016 partendo da numero 145. Un argentino che sfiora l’oro in Brasile, come Messi due anni prima al Mondiale nonostante la canzoncina che accompagnava le partite della Albiceleste. Delpo l’ha fatto. Il sorteggio era stato pure complesso: lui, appunto, partiva da numero 145 al mondo. Primo turno, contro il numero uno, Novak Djokovic. Emiliano Guanella, tra i giornalisti che erano lì, ricorda: “All’inizio è come una piccola fiamma, poi la speranza cresce nel vedere che Delpo è solido, concentrato. Si fa infilare un paio di volte di troppo a rete, ma non perde il servizio e Djokovic inizia a sentire il colpo. Gli sfugge il primo e poi il secondo tie-break, addio Olimpiadi. Finiscono abbracciati a rete, entrambi con la lacrime agli occhi. Uno per una vittoria che premia gli sforzi fatti negli ultimi due anni per tornare a galla, l’altro perché ci teneva davvero a dare una medaglia d’oro alla sua Serbia. Il giorno dopo gli organizzatori non sono benevoli con l’argentino, che a mezzogiorno deve scendere in campo contro Joao Sousa e poi nel pomeriggio si trova ad affrontare assieme a Mariano Gonzalez il doppio spagnolo Nadal – Lopez, che perde in tre set. Tre partite in 23 ore; quasi sette ore in campo in un giorno. Tra i suoi tifosi c’è anche un grande amico, il ‘vecchietto’ Manu Ginobili, che è a Rio con l’ultimo torneo della generazione dorata del basket argentino. Undici anni di differenza, entrambi sono de miti con la celeste y blanca; se non giocassero quasi in contemporanea andrebbero reciprocamente a farsi forza negli spogliatoi. Uno ha scritto un pezzo di storia del basket, l’altro ha ancora molto da dare al tennis e solo lui sa quanto è grande la voglia di vincere, dopo tanto tempo seduto”. Partita dopo partita, fatica dopo fatica, la finale. Persa contro Murray. Argento.

 

Quattro operazioni al polso maledetto hanno privato il tennis di uno che a un certo punto aveva interrotto il duopolio Roger-Rafa

C’è l’epica, sempre. Perché oltre alle rimonte nella sua carriera ci sono le partite combattute. Si comincia ovviamente con quella contro Federer del 2009, poi le altre. In un tennis in cui troppi dicono che i risultati siano scontati, Delpo è la variabile che avevi smesso di considerare. In molti vedono analogie con il percorso di Agassi che cadde e risorse. Qui, rispetto alla retorica sul Kid di Las Vegas, c’è un percorso più continuo, costante e se si vuole, più faticoso. Come se il talento non sia mai sufficiente. Il polso è la sua dannazione continua, a volte anche un alibi, però è stato molto più complicato da gestire rispetto alla schiena di Andre. Lì ci fu la gloria ripresa all’improvviso dal basso, qui c’è il tentativo di una costanza che lo riporti dov’era. E dove farebbe paura. Prima della semifinale di questo Us Open, Nadal ha detto: “Quando gioca bene, è molto difficile fermarlo. Il suo dritto è probabilmente il più veloce del circuito. Se serve bene e colpisce bene col dritto, ha la possibilità di vincere contro chiunque. Dovrò mettere in campo il mio miglior tennis. Ovviamente dovrò essere molto concentrato sul mio servizio e giocare aggressivo, perché se gli consenti di colpire il dritto da una buona posizione, sei morto. Da quella posizione è inarrestabile, quindi dovrò cercare molto il suo rovescio, mantenendo il palleggio profondo e aprendo il campo”.

 

La bellezza del suo tennis è un colpo piatto, dall’alto verso il basso, dai 198 centimetri di un corpo che non avrebbe potuto essere quello di un calciatore. A volte succede anche questo: è il fisico che sceglie per te. E questo succede nonostante i sogni, i desideri, gli sforzi. Sempre in quella intervista alla Nación ha detto: “Il calcio mi fa sognare più del tennis. Sogno di giocare nel Boca e fare gol alla Bombonera, mi capita di sognare a occhi aperti e parlarne per tutta la notte”. Non succederà. Potrebbe accadere un’altra cosa, invece. Una che è già accaduta, per dirla tutta. Il rovescio, l’ha detto anche lui, non tornerò più quello con cui otto anni fa la fece accadere. Quando è tornato, dopo l’ennesima operazione, è stato accolto con un po’ di pregiudizio proprio perché tutti avevano notato un cambiamento: in negativo per la debolezza del rovescio, diventato sempre più spesso un colpo giocato in back o in slice per il dolore al poso. E’ rimasto il diritto, però. Quello che fa paura a Nadal. E’ rimasto il servizio e ciò che pochi altri giocatori hanno: la forza di non cedere, neanche quando sembra che sia finita, come con Thiem che lo stava dominando. Nel tennis c’è sempre una pallina in più. I maestri dicono: devi far giocare un colpo in più all’avversario e così alzi la tua possibilità di vincere il punto. Del Potro fa esattamente questo, sempre. Poi schiaffeggia la palla. Col diritto. Prima di sentire uno stadio che canta Delpo-Delpoooo. Può accadere ovunque.

Di più su questi argomenti: