Scarponi d'Italia

Giovanni Battistuzzi

Sabato scorso il mondo del ciclismo ha salutato il suo campione gregario. Una storia di biciclette, amori, fatiche e pappagalli. Anche di morte

Il ciclismo è sport strano nel quale la dimensione temporale non esiste, non c’è presente senza passato, è un flusso continuo di corse e di avvenimenti, di campioni e gregari che si sommano e si accavallano. La contemporaneità è un solo una sfaccettatura di una storia nata oltre un secolo fa che va avanti uguale a se stessa, nella quale le imprese di un tempo sono eco di quelle appena compiute. E’ una sorta di fede pagana fatta di peregrinazioni verso santuari a pedali e date ricorrenti alle quali rendere omaggio, una cronologia che richiama luoghi, ma soprattutto volti e assenze. Il 2 gennaio assume le sembianze di Fausto Coppi, il suo naso allungato, la curva perfetta della sua schiena a cavalcioni su di una bicicletta, la sua grazia nel pedalare, la sua fine in quel giorno del 1960. Il 14 febbraio è Marco Pantani, la sua sagoma sempre sui pedali, mani basse sul manubrio e scatti a ripetizione, la sua scomparsa a Rimini, lontana dalle corse, lontana da tutto. Il 18 luglio è Fabio Casartelli, il suo viso pulito, la medaglia olimpica al collo, quella maledetta discesa del Portet-d’Aspet, Pirenei, Tour de France del 1995. Il 22 aprile sarà invece e per sempre Michele Scarponi, una nuova pagina di un calendario che nessuno avrebbe mai voluto aggiornare.

 

Michele era l'Aquila di Filottrano. Ha chiuso le ali il 22 aprile 2017, investito da un furgoncino

Il corridore marchigiano il 5 maggio doveva essere al via del centesimo Giro d’Italia, doveva essere il capitano dell’Astana, un tributo alla carriera dopo anni di lavoro per gli altri, attestato di stima per la capacità di non mollare, di essere ancora protagonista a 37 anni, non pochi per un ciclista, non troppi per vincere ancora: l’aveva fatto il 17 aprile a Hungerberg, borgo montano sopra Innsbruck, al Tour of the Alps. Cinque giorni dopo un furgone l’ha investito a pochi chilometri da casa sua, a Filottrano, imponendo l’imperfetto alle sue gesta, escludendo l’utilizzo del futuro.

 

Il Giro partirà da Alghero senza di lui, un’assenza che sarà però evidente solo nella lista dei partecipanti, perché “il ciclismo ha il dono di non dimenticare, di mantenere vivi i suoi eroi, di rendere vicini tempi lontani. Accorcia le distanze dei ricordi”, scrisse Antoine Blondin, scrittore prima che giornalista dell’Equipe. Il ciclismo ricorda perché è divisorio, impone, almeno formalmente, una scelta di campo: Binda o Guerra, Coppi o Bartali, Merckx o Gimondi, Moser o Saronni, Bugno o Chiappucci. E’ questione di inclinazione, di visione del mondo che si riflette in modi diversi di intendere la vita e alla luce di questa lo sport. Progresso o fede, ingordigia o cavalleria, controllo o azzardo. Ma è solo forma, non tifo, solo inclinazioni diverse che si azzerano al passaggio del gruppo e diventano applauso condiviso. Perché la fatica è il comune denominatore di questa attività e chi su di una bici ha pedalato anche solo per qualche chilometro sa quello che i ciclisti provano, perché basta vedere i volti stravolti dei corridori che cercano di raggiungere la cima di un passo, per capire che il beneficio di un urrà va concesso a chiunque, indipendentemente dalla maglia.

 

Poi c’è chi queste divergenze le appiana, le rende ininfluenti, di poco conto. E’ chi diventa il ciclista unico, quello che è impossibile non apprezzare perché non crea divisioni, ingloba tutti gli evviva. Fu così Costante Girardengo, perché il primo più forte di tutti, un’altra razza di atleta, il primo Campionissimo. Fu così Marco Pantani – almeno sino a Madonna di Campiglio, all’esclusione dal Giro d’Italia del 1999 per ematocrito sopra i livelli consentiti – perché appassionante, perché contro di lui si era accanita la sfortuna e quella bastava. Fu così Michele Scarponi.

 

Il marchigiano era partito da Filottrano e aveva conquistato il popolo delle biciclette senza dover neppure conquistare quello del ciclismo. Perché il rispetto del pubblico, degli appassionati e non solo, se lo era conquistato indipendentemente dai risultati ottenuti, che pure sono stati tanti: una trentina di corse vinte in carriera e tra queste un Giro d’Italia (quello del 2011, anche se a distanza di mesi dal podio di Milano, a causa della squalifica di Alberto Contador), tre tappe alla corsa Rosa, una Tirreno-Adriatico. Grandi centri, ma del tutto ininfluenti per farsi voler bene, a lui bastava essere Michele Scarponi, bastava la sua arte dello scherzo, l’abilità di sdrammatizzare e utilizzare il sarcasmo per arrivare far capire a tutti cos’è questo sport, il perché ancora e nonostante tutto riesca ad appassionare migliaia di persone.

 

Aveva la faccia da attore, la battuta sempre pronta, la capacità di sdrammatizzare anche la fatica delle salite

Michele Scarponi aveva la faccia da attore e come un attore la plasmava, modificava espressione e  dimensione: quella attoriale, per mimica, quella ciclistica, per necessità e vocazione. Sempre con una battuta però, cabaret. “Sono partito gregario, poi mi hanno dato la libertà di provarci, sono diventato capitano, ora sono tornato gregario. Meglio così, se no sai che palle fare sempre la stessa cosa”, disse prima del Giro d’Italia del 2014, quando lo chiamarono all’Astana a fare da balia a Fabio Aru e da scudiero a Vincenzo Nibali al Tour. “Sono un vecchietto ormai, ma anche generoso, risparmio allo stato una pensione”, continuò a chi gli fece notare i trentacinque anni sulla carta d’identità.

 

Tre anni dopo, si era ritrovato a essere capitano senza averlo nemmeno chiesto. Fabio Aru mentre si allenava aveva picchiato il ginocchio sull’asfalto e questo era diventato grosso come un melone. Il medico gli aveva imposto il riposo forzato: addio a qualsiasi velleità di partecipare alla corsa. “Mi dispiace per Fabio, non meritava così tanta sfortuna. Poteva essere il suo anno questo, ma è giovane e fortissimo, il futuro sarà suo. E mi dispiace anche per me, perché mi toccherà faticare il doppio”. Lo ha detto al Foglio pochi giorni prima del Tour of The Alps, una settimana prima della sua ultima pedalata. Pochi minuti al telefono, quattro chiacchiere sul Giro e su gregari e capitani, su scelte passate e programmi futuri, un appuntamento telefonico posticipato per doveri di corsa, di squadra, un “aspetto la tua chiamata. Ciao”. Una dichiarazione di amore alla bicicletta: “Sai cos’è? E’ che alla fine alla bici fai lo sbaglio di volerle bene, nonostante tutte le fatiche che ti fa patire. Ne sei innamorato e questo ti costringe a soffrirci sopra”.


Al Giro del 2016, passò per primo la Cima Coppi. Poi si fermò ad aspettare Nibali. Poteva vincere, regalò la Rosa al capitano

“Sofferenza, condanna del ciclista, e più del gregario perché nemmeno la gloria la può alleviare”, almeno per Bruno Raschi. Michele Scarponi lo era diventato per scelta e per necessità, perché l’esperienza si allunga e con quella l’età e allora il passaggio è dovuto. Gregario sì, ma il migliore, rampa di lancio, presenza infinita affianco del capitano, ultima corda di appiglio. L’anno scorso al Giro la dimostrazione più bella, il capolavoro. Era il 28 maggio 2016, la diciannovesima tappa, Pinerolo-Risuol, 162 chilometri. Vincenzo Nibali sembrava tagliato fuori per la vittoria finale, sulle Dolomiti aveva perso parecchio e quattro minuti e quarantatré secondi lo separavano dalla Maglia Rosa Steven Kruijswijk. Restava solo una cosa da fare: azzardare e vedere come andava a finire. Per questo Scarponi partì al mattino con altri ventisette uomini, avanscoperta aspettando le mosse del capitano, una gara al comando se le gambe di Nibali non erano buone, di attesa se invece lo Squalo fosse riuscito a cambiare il senso alla sua corsa. Nessuna indicazione arrivava dall’ammiraglia e il marchigiano ritornò a essere l’Aquila di Filottrano, il suo soprannome. Staccò tutti sul Colle dell’Agnello, scollinò per primo sulla Cima Coppi, la vetta degli scalatori, quella dedicata al Campionissimo e si gettò verso valle pronto a compiere l’impresa. Sarebbe stata l’apoteosi di un’ottima carriera, se non fosse che Nibali aveva attaccato Kruijswijk e Kruijswijk nel tentativo di inseguirlo in discesa era finito a bordo strada a rotolare sulla neve. Scarponi smise di inseguire la gloria personale, aspettò il capitano e lo lanciò verso il paesino di Risoul. Fu rivoluzione e sconquasso. Secondo posto in classifica per lo Squalo dello Stretto e solo quarantaquattro secondi di ritardo da Esteban Chaves, un margine che l’indomani non bastò al colombiano quando, sul Colle della Lombarda, Nibali si involò verso la Maglia Rosa di Sant’Anna di Vinadio. “Potevo vincere la tappa, ma Vincenzo può vincere il Giro e tutto il resto a cospetto di questo non conta”, disse poche ore dopo il termine della tappa.


Michele Scarponi sul Colle dell'Agnello al Giro d'Italia 2016


“Una tappa non vale un Tour”, commentò Gastone Nencini quando a Parigi si presentò in Maglia Gialla senza non aver vinto nessuna frazione. E non vale nemmeno un Giro. Una massima che Scarponi conosceva bene, perché la corsa Rosa l’aveva vinta, anche se in differita. Era il 2011 e sul gradino più alto del podio di Milano c’era salito Alberto Contador. A febbraio dell’anno dopo il ribaltone: il Tribunale arbitrale dello Sport di Losanna squalificò lo spagnolo per la positività al clembuterolo al Tour de France del 2010. Un anno e mezzo per la sentenza e titoli vinti nel frattempo revocati. “In Italia le poste sono talmente in ritardo che anche la Maglia Rosa ti arriva mesi dopo”, scherzò dopo aver saputo dell’assegnazione della vittoria a tavolino.

Non esultò però, non puntò neppure il dito contro il Pistolero, come altri avevano fatto, come sarebbe stato facile fare. “Che ci crediate o no io non sono assolutamente contento. Per uno sportivo vincere a tavolino non è mai piacevole. Mi spiace molto per Alberto: lui è di un altro pianeta, ed è giusto riconoscerlo. L’anno scorso io ho fatto di tutto per vendergli cara la pelle, ma quando la strada saliva, fin dalla tappa dell’Etna, lui ha dato dimostrazione di forza e classe purissima. Non voglio entrare nella questione della sentenza, mi limito a dire che per me Alberto resta un fuoriclasse”. Sapeva bene Scarponi come a volte è la squadra a scegliere per i corridori e come i corridori accettino di tanto in tanto decisioni altrui senza la consapevolezza di quanto stanno realmente facendo. Sapeva bene cos’era la squalifica, ci incappò anche lui. Gliel’aveva portata in dote l’esperienza spagnola, l’Operación Puerto, assieme a sacche di sangue pronte al bisogno. Aveva ammesso, pagato, era tornato a correre, aveva poi spazzato via passato e sospetti ritornando a essere lo stesso, avanguardia del gruppo, vincente.

“Nel ciclismo come nella vita l’errore è parte del cammino e un piede in fallo è consentito metterlo. Va capito, non drammatizzato, le dita vanno abbassate e le mani usate solo per applaudire chi sa rimettersi in strada”, disse alla tv francese Jacques Goddet, per cinquant’anni direttore del Tour de France a pochi giorni dalla squalifica di Eddy Merckx per doping al Giro d’Italia del 1969.

 

Scarponi si era rimesso in strada e lo aveva fatto alla grande. Nell’edizione della corsa Rosa del 2009 aveva vinto due tappe, l’anno successivo sul Mortirolo aveva fatto faticare sia Ivan Basso che Vincenzo Nibali, al tempo compagni di squadra, per poi batterli allo sprint sull’Aprica. Nel 2011 prima aveva provato a fare la rivoluzione alla Milano-Sanremo: era partito sulla Cipressa, da solo recuperò il gruppo dei primi, sul Poggio l’azzardo, l’anticipo disperato a poche centinaia di metri dal traguardo: sesto, il suo migliore risultato, non male per uno scalatore nella Classica più veloce al mondo. Due mesi dopo il testa a testa al Giro con Contador, nonostante lo spagnolo fosse “di un altro pianeta” per poter anche solo sperare di batterlo.

 

“Mi faccio un mazzo tanto, ma alla fine è giusto prendere quello che viene. Una volta magari uno sperava di prendere le miss, ora si preferisce un pappagallo, perché a casa sai già di avere il meglio del mondo”. Parlava di Anna, la moglie, e di Giacomo e Tommaso, i figli. Parlava di Frankje, il pappagallo che molto spesso gli volava vicino durante gli allenamenti a Filottrano.

 

Frankje era libero, il suo padrone lo lasciava volare ovunque e lui seguiva chi voleva e quanto voleva. A Michele Scarponi gli planava affianco quando pedalava, gli atterrava sul braccio o sulle spalle o sulla testa, il tempo di una foto o di un video, poi scappava via. Frankje l’hanno visto appollaiato sul cartellone che sta a fianco di quella curva dove il corridore ha incrociato il furgone che l’ha ucciso. Non volava quel giorno, aspettava. Forse salutava anche lui.

Di più su questi argomenti: