Rik Van Looy (foto via Flickr)

L'armata rossa invade il Giro d'Italia, l'ultimo di Gaul: meno 59 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

Rik Van Looy non era un predestinato, ma era intelligente e scaltro. Con lui gli sprint entrarono nella modernità (dietro le maglie scarlatte della Faema)

Sarà che nessuno gli aveva predetto un futuro da vincente, mentre lui aveva dentro una fame di gloria come pochi. Sarà che di Rick Van ne era già passato uno, Rik Van Steenbergen, e per lo più gli era simile per caratteristiche ma simpatico per espressioni, mentre lui la faccia ce l’aveva sempre scura e alla battuta preferiva il borbottio. Sarà forse e soprattutto che quello che si era preso se lo era guadagnato allenamento dopo allenamento, rinuncia dopo rinuncia. Sarà per questo che Rik Van Looy lo chiamavano l’Imperatore, e non era sempre un complimento. Rik imperava e comandava, dava il massimo e molte volte anche di più e pretendeva che tutti i suoi compagni facessero lo stesso. Correre con lui non era ciclismo, era missione. E la missione aveva un solo verbo da diffondere: il suo, quello di Rik Van Looy, cioè vincere. 

Gli ci volle un po’ per primeggiare. Alcuni anni di praticantato, di studio per capire cosa succedeva alle sue gambe quando la volata era lanciata. Erano sempre andate bene, forse un po’ tozze, ma potenti. Aveva sempre trovato il modo di battere tutti allo sprint nei dilettanti, si accorse presto che però tra i professionisti serviva altro, forse l’incoscienza di buttarsi in volate a quasi sessanta all’ora tra biciclette che uscivano da tutte le parti. L’anarchia dominava allora e Rik, che era uomo preciso e metodico, questo non lo poteva tollerare. Ragionò, s’ingegnò, capì che l’ordine andava stabilito imponendo il volere del singolo e il volere del singolo era il suo, quello di Rik Van Looy. Scelse i più grossi e potenti gregari che aveva e disse loro di mettersi in testa e tirare alla morte sino ai cinquecento metri all’arrivo, poi ci avrebbe pensato lui. Il giochetto funzionò. Le maglie della Faema si schierarono compatte davanti al gruppo, una macchia di rosso vivo, di rosso veloce, insuperabile. Le volate diventarono copione, una messa in scena sempre uguale; la ruota di Rik Van Looy precedette quella degli avversari per trenta volte in due anni. Era nato il treno, che allora era guardia, Guardia rossa, perché quello era: un esercito armato di polpacci potenti, una rampa di lancio per lui.

Così quando nel dicembre del 1958 andò da suo direttore sportivo dicendo che “Van Looy corre il Giro il prossimo anno”, Guillaume Driessens ne fu contento: “Con te e Gaul vinceremo tantissimo”. Ma quando Van Looy agitò il dito davanti al suo volto, Driessens capì che erano iniziati i problemi: “Van Looy fa il Giro, ma con chi vuole Van Looy. Non so cosa voglia fare Gaul, ma se c’è Van Looy non ci sarà Gaul”. Driessens salutò il lussemburghese e si tenne il belga.

E così le maglie rosse della Faema colorarono la testa del Giro, come tanti veloci garofani che si muovevano armonici. E l’armonia aveva un solo apice: Rik Van Looy. Vinse quattro tappe, vestì la Maglia rosa il primo giorno. Poi iniziarono le montagne e l'Angelo della Montagna iniziò a dominare. Il Giro invece lo vinse Gaul e Driessens fu un po' meno contento. Ritrovò il sorriso solo quando l'Imperatore iniziò a dettare legge in qualunque classica. Nessuno era mai riuscito a conquistarle tutte. Nessuno mai ci riuscì dopo di lui.

 

Vincitore: Charly Gaul in 101 ore 50 minuti e 26 secondi;

Secondo classificato: Jacques Anquetil a 6 minuti e 12 secondi; terzo classificato: Diego Ronchini a 6 minuti e 16 secondi; 

Chilometri percorsi: 3.657.