Kisenosato

Il Giappone tradizionale torna di moda grazie ai 175 chili di Kisenosato

Giulia Pompili

Il lottatore vince pure il Gran torneo di primavera

Roma. Un rikishi, in Giappone, non è soltanto un atleta. E’ un semidio, un simbolo, e – in un certo senso – pure una macchina da soldi. E’ per questo che Kisenosato, lo scorso fine settimana, è andato a combattere per il titolo del Gran Torneo di Primavera nonostante l’infortunio alla spalla che si era procurato nella sconfitta del combattimento precedente. Ma sabato scorso, a Osaka, il trentenne Kisenosato (175 chili per 188 centimetri) ha vinto il titolo più importante della stagione. Durante la consegna della coppa ha pianto, mostrando al mondo l’emozione di arrivare al punto più alto di una carriera. Ma forse quell’emozione era dovuta anche al fatto di essere tornato un simbolo del Giappone tradizionale e forse, dopo molti anni, un idolo in grado di far tornare i ragazzi giapponesi ad amare il sumo. Il volto di Kisenosato era finito sulla stampa internazionale a fine gennaio quando, dopo un cospicuo numero di vittorie, il Consiglio direttivo della Japan Sumo Association aveva deciso di promuoverlo al grado più alto raggiungibile nel sumo, quello di yokozuna. Kisenosato, nato nella prefettura di Ibaraki, è il primo giapponese dal 1998 a ricevere quel grado. Perché il declino inarrestabile dello sport – che non è uno sport, e nemmeno un’arte marziale, ma una specie di sacerdozio a vita – aveva permesso nel frattempo ad altri paesi di primeggiare.

 

Attualmente, dei soli quattro yokozuna in attività, tre sono mongoli. E’ dal 2003 che i nuovi yokozuna sono soltanto nativi della Mongolia, e una spiegazione aveva tentato di darla tempo fa il Wall Street Journal: “C’è un motivo economico. Una vita da lottatore professionista non è particolarmente attraente per i giapponesi”. Questo perché le tradizioni fanno parte dell’allenamento, e ogni nuova leva ha la sveglia alle 5, ha un’alimentazione particolare per mantenere il peso (niente colazione, pranzo pieno di carboidrati e proteine) e il rapporto tra i giovani atleti e quelli più anziani è rigido ai limiti del nonnismo.

 

Per tutta la sua vita, un sumotori deve rispettare un’etichetta inflessibile: rappresenta i valori del Giappone tradizionale, e quindi lascia i capelli lunghi come i samurai del periodo Edo, in ogni occasione pubblica veste con lo yukata, il vestito tradizionale nipponico. Secondo molti giapponesi, questa vita di sacrifici non vale il prestigio e soprattutto il denaro: al massimo della sua carriera, un rikishi guadagna più di ventimila euro al mese – meno di un calciatore professionista, ma molto più di uno stipendio medio in Mongolia. E’ per questo che i mongoli, dagli anni Duemila in poi, hanno trovato nel sumo un modo per emanciparsi e, una volta ritirati dalla vita pubblica giapponese, tornare a casa, ma ricchi. Fino a poco tempo fa quello del sumo sembrava un declino inarrestabile: nel 2010 furono sospesi tutti i tornei dopo un’inchiesta e un enorme scandalo di scommesse e di strani rapporti con la mafia. Nel tentativo di riabilitare l’immagine dei rikishi, nel 2011 dopo il terremoto e lo tsunami nel Tohoku, i lottatori professionisti furono mandati ad aiutare le popolazioni colpite dal disastro. Ma nel frattempo i giapponesi si erano inevitabilmente allontanati dallo sport più antico e mistico della loro storia. Poi è arrivato Kisenosato.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.