Meno 95 al Giro100: il sonno di Azzini prima della Grande Guerra

Giovanni Battistuzzi

L'edizione del 1914 è la prima che abbraccia la classifica a tempi e l'ultima a essere disputata prima dello scoppio del conflitto del 15/18. La vince Alfonso Calzolari.

Non una corsa, un gioco al massacro. E' il sesto Giro d’Italia, quello del 1914, il primo che accantona la classifica a punti per abbracciare quella a tempo. Degli ottantun uomini partiti da Milano ne restano in corsa 37 al termine della prima tappa. Gli altri sono appiedati da neve, freddo e chiodi nel corso dell’ascesa al Sestriere. “Nessun Giro di Francia fu mai così severo. Esso pareva combinato apposta per liquidare gli uomini. Partire tre volte consecutive alla mezzanotte per fare 17 o 18 o 19 ore di sella non può non essere disastroso”, scrivono sulla Gazzetta.

 

Otto tappe, 3.162 chilometri da percorre, una media di 395 a giorno. Costante Girardengo, che vince la tappa più lunga della storia della competizione, la Lucca-Roma 430 chilometri, 350 dei quali a inseguire l’avanguardista solitario Lauro Bordin, commenta: “Cose così non si son mai viste. Gli organizzatori hanno studiato il manuale di De Sade”.

 

Oltre al sadismo, pioggia e freddo. Il cielo è un cumulo di tonalità di grigio che insegue i corridori da nord a sud, “come se il Signore – ricorda lo stesso Girardendo qualche anno dopo al Corriere – volesse punirci combinandoci questo scherzetto”. Una corsa a eliminazione. Il primo giugno tra le montagnole lucane Alfonso Calzolari, che sino al giorno prima aveva oltre un’ora di vantaggio sul secondo, si ritrova privato del primato dopo 328 chilometri di “strade desolate che nemmeno a rifarle da capo verrebbero bene”. Calzolari buca 13 volte. Giuseppe Azzini, che vince la tappa, soltanto sette e gli rifila un’ora e tre minuti, diventando il grande favorito per il successo finale. 

Il 3 giugno durante la Bari-L’Aquila, 430 chilometri di salite e discese tra gli Appennini molisani e quelli abruzzesi, Azzini inizia a menare forte sulle pedivelle già prima di Campobasso. Parte e nessuno lo vede più. La sua è una corsa talmente solitaria che nemmeno al traguardo lo scorgono. Passa Luigi Lucotti, che vince e maledice giuria e giornalisti, passa Carlo Durando, passa Alfonso Calzolari, che sul Colle Piacenza, prima di Sulmona aveva accettato di buon grado di attaccarsi alla portiera di una macchina e salire a trenta all’ora senza pedalare: gli furono inflitte 3 ore di penalizzazione, ma vinse lo stesso quel Giro. Passano tutti. E Azzini? 

 

L’allarme è dato, la ricerca iniziata. Dura tutta la notte. Invano. Alle 9 del mattino del 5 giugno un pastore di Barisciano che era appena uscito da un’osteriola per un cicchetto che combattesse il freddo vede spuntare una bicicletta dal fienile. E avvisa la polizia.

 

Lo scuotono. “Andate avanti voi e il vostro Giro, andate pure avanti che poi vi prendo”. “I corridori sono partiti da un pezzo, a mezzanotte, e a quest’ora saranno già quasi in Romagna”. “Meglio così”, tagliò corto Azzini girandosi dall’altra parte e iniziando di nuovo a ronfare. Dormiva abbracciato a una bottiglia di rosso con due coperte addosso in mezzo al fieno.