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Il ciclismo moderno che ha ormai dimenticato Fausto Coppi

Giovanni Battistuzzi

Il 2 gennaio di 57 anni fa moriva il Campionissimo. Nel giorno in cui si è aperto il calendario mondiale 2017, quello che l’Uci non ricorda dell’Airone

Il 2017 del ciclismo è iniziato in Australia, a Portarlington. Si è corsa la prima e la seconda tappa Mitchelton Bay Classic, prima vittoria stagionale per Michael Hepburn, australiano dell’Orica-Scott, uomo da pista più che da strada, velocità pura, cinque mondiali messi in bacheca in carriera tra inseguimento e inseguimento a squadre. Il 2017 del ciclismo è iniziato anche se lontano da casa madre Europa, con gli auguri del presidente del Union cicliste Internationale (Uci), Brian Cookson, che ha salutato il 2016 parlando di un annata di grandi progressi del movimento, sempre più globale e sempre più seguito, grazie anche al gran palcoscenico olimpico a Rio, e auspicando un “2017 di grande spettacolo e di grande imprese”.

 

L’Uci si loda, incensa le scelte di allargamento delle corse inserite nel calendario World Tour, il circuito di gare più importante, quello in cui dovrebbero partecipare i ciclisti migliori, tratteggia un futuro che parla di movimento globale, di eventi che abbracciano Canada e Cina, Australia e Abu Dhabi, Turchia e Stati Uniti. Espande insomma i suoi orizzonti, la sua storia sinora quasi esclusivamente europea. Un bene, dicono dalla sede in Svizzera. Un giudizio diverso ne danno alcuni direttori sportivi, sempre più scettici dalla moltiplicazione di corse e paesi ospitanti, ma tant’è, l’Uci decide, le squadre eseguono. “Io non sono contrario a correre in ogni angolo del mondo, ma ci vuole buon senso”, ha detto ad agosto Marc Madiot, il manager della francese FDJ, squadra del World Tour – la serie A del ciclismo – aggiungendo pochi giorni fa che “le istituzioni ciclistiche parlano di spettacolo, spettacolo e ancora spettacolo, ma per lo spettacolo ci vogliono corridori in salute, pronti alla corsa, non affaticati dalle trasferte”.

 

Quello che Madiot ricorda e che Cookson invece dimentica è proprio il punto nevralgico di questo sport: quel connubio indivisibile di corse e corridori, di storia e imprese. Un connubio esaltatosi all’ultimo Giro d’Italia, corso su di un percorso pensato per esaltare i corridori, e vinto da Nibali con due imprese ad alta quota. Un connubio entrato in crisi invece all’ultimo Tour de France, corso su di un percorso pensato per esaltare le riprese televisive, dominato dalla paura di attaccare l’imbattibile squadra capitanata da Chris Froome.

 

E così, oggi che il 2017 del ciclismo è iniziato forse Brian Cookson, più che immaginare uno sport sempre più frastagliato tra corse emergenti e senza storia, dovrebbe salutare o quantomeno ricordare quanto capitato cinquantasette anni fa a Castellania, pochi chilometri da Novi Ligure. Dovrebbe ricordare quando l’Airone ha chiuso le ali, si è tramutato in passato, dovrebbe ricordare cosa è stato per questo sport Fausto Coppi, cioè tantissimo: epica, memoria, passione. E dovrebbe iniziare a capire perché a cinquantasette anni di distanza ancora folle di uomini e di ragazzini si recano a Castellania, perché il Giro decide di fare tappa quest’anno, per la centesima edizione della Corsa.



Coppi non è solo ricordo o memoria. Non è solo mito passato, contrapposizione con Bartali, storia. Coppi, è stato, e ancor oggi lo è, qualcosa di più di questo. E’ monumento di quanto questo sport è stato per decenni e decenni innanzitutto volo libero, solitudine in testa, voglia di stupire. Sono le fughe tra montagne e discese, sono le imprese testarde e non convenzionali, la voglia di sfidare il possibile.

 

E’ tutto ciò che nell’epoca delle ammiraglie e delle radioline, dei programmi di vita e di allenamento il grande ciclismo sta dimenticando. Perché i Froome e gli Armstrong potranno anche vincere e stravincere, collezionare maglie gialle vittorie, ma sono i Coppi, i Bartali, i Chiappucci, i Pantani a rimanere indelebili.

 

Ma forse per i grandi capi del ciclismo questo non conta poi tanto.

 

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