Dries Mertens (foto LaPresse)

Fenomeno Mertens, ma non chiamatelo Maradona

Leo Lombardi

All'attaccante non resta che l'ultima sfida per fare il salto di qualità definitivo: non farsi ingolosire dall'eterna attesa di Napoli per l'erede di Diego. Capitolo portieri: la rabbia ingenua di Perin

Per segnare, segnava già. Ma un conto è riuscirci nel Psv e nel campionato olandese, dove un “over” non si nega a nessuna partita quando si tratta di andare a scommettere. Un altro è farlo nel Napoli e in Italia, dove il tatticismo esalta la fase difensiva. Dries Mertens sta riscoprendo il piacere di mettere il pallone alle spalle di un portiere: dieci volte in stagione, sette nelle ultime tre partite. Se i tre gol al Cagliari sembravano da pesca facilitata al laghetto, vista l'inconsistenza della difesa sarda, sono giunti i quattro al Torino sette giorni dopo. Una prolificità inaspettata, per uno arrivato per caso a muoversi da centravanti. Infortunatosi Milik, poco considerato Gabbiadini, in attesa di un rinforzo a gennaio (Pavoletti), Sarri si è giocato la carta Mertens punta unica, con Callejon e Insigne a supporto: i tre tenori, nelle giornate buone; i tre nani, in quelle critiche. Un “falso nueve”, come si ama dire, entrato nel filone inaugurato dalla splendida e incompiuta Ungheria degli anni Cinquanta. Hidegkuti, un'ala come Mertens, piazzato al centro dell'attacco per attirare fuori il centrale avversario e aprire la strada a formidabili interni quali Puskas e Kocsis.

 

Un'idea simile ma diversa, perché il peso specifico dell'attacco del Napoli è di gran lunga inferiore rispetto a squadre che hanno adottato un simile sistema di gioco, per centimetri e chili. E perché la responsabilità della fase offensiva è affidata per intero a quei tre, visto che Hamsik è l'unico degli altri reparti a dare un contributo continuativo. Una responsabilità che ha inaspettatamente rimesso in marcia la vita professionale di Mertens, belga che non ha mai giocato in un club del suo paese. Presentatosi in Italia, è stato sempre posto in discussione, per via della concorrenza nel ruolo e di un carattere non accomodante. Gli capitava con Benitez, gli è successo con Sarri, due allenatori poco inclini al cambiamento. Quanto tale convincimento sia stato sbagliato, lo sta dimostrando la realtà: non solo per i gol (e rimane negli occhi il pallonetto andato dolcemente a scavalcare Hart, un colpo magico per dinamica dell'azione e posizione sul campo) ma per il contributo complessivo alla squadra. Ora Mertens deve dedicarsi al compito più complicato, in una città che attende ancora l'erede di Maradona come la venuta del Messia. Un'attesa che ha divorato ogni possibile erede e da cui il belga non deve farsi né coinvolgere né tentare, per non illudere e non illudersi. 

 

Una giornata, l'ultima, parecchio complicata per i portieri. Se Puggioni ha aperto la porta della Sampdoria con un'uscita senza ragioni, se Cordaz ha guadagnato l'espulsione con un'ingenuità ridicola dopo aver tenuto in piedi il Crotone, la chiusura è stata in serata tutta per Mattia Perin. Le circostanze hanno avuto il loro peso, sicuramente. In 21 minuti il Genoa ha infatti perso una partita che stava vincendo 3-1. Lo ha fatto in casa, lo ha fatto incassando gli ultimi due gol in due minuti, tra 43' e 45', lo ha fatto prendendo in una sola partita le reti (quattro) che aveva preso nelle otto precedenti a Marassi, lo ha fatto con una squadra (il Palermo) reduce da nove sconfitte consecutive. In virtù di tutto questo si può capire che a uno salga la rabbia, come successo per l'appunto a Perin. Punizione da battere per l'ultimo assalto, Nestorovski che non si allontana dalla palla e che finisce a terra dopo uno spintone del portiere, inutile quanto evidente. L'espulsione è stata la logica conseguenza, ininfluente in una partita ormai al termine e determinante per saltare la prossima che, con il Torino avversario, per il Genoa non è mai banale. Si può capire il gesto, abbiamo detto, ma non giustificare. Specialmente per uno come Perin che, è innegabile, ha il futuro dalla sua parte.

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