Qui vediamo Pep Guardiola mentre si chiede: “E se mi facessi un bel trapianto di capelli pure io?” (foto LaPresse)

That win the best

Conte e le accozzaglie di Pep e Mou. Chape, astenersi bolliti

Jack O'Malley

Uno s’arrabbia, si sfoga, alla fine di un derby dice cose che non dovrebbe e viene giustamente bacchettato per l’intemperanza. Ma perché il razzismo? Perché i calzini e le cinture che Lulic accusava Rüdiger di vendere in quel di Stoccarda fino a pochi anni fa solitamente vengono vendute da ambulanti di colore? E quindi?

Londra. C’era una volta il Fergie Time, quel momento magico in cui, quando tutto sembrava perduto e mancava poco alla capitolazione, il Manchester United allenato da Sir Alex Ferguson recuperava lo svantaggio, pareggiava e addirittura vinceva, anche grazie ai cambi decisivi. Non sono appunti per Jim Messina, che certamente sognava un Renzie Time la notte del 4 dicembre, ma un monito per Mourinho. Il manager dei Red Devils aveva cominciato la stagione dando l’illusione di potere ripercorrere quelle orme, buttando in campo cuore e intensità nei minuti finali. Da un po’ invece la sua squadra è divenuta la nemesi di quella di Ferguson: quella di domenica contro l’Everton è l’ennesima partita buttata al 90’, spesso per errori o ingenuità dei giocatori inseriti nel secondo tempo. Ma se allo Special One sta sfuggendo di mano la riforma dello United, al suo odiato vicino di casa Pep Guardiola sabato è andata peggio. I due allenatori sarebbero dovuti essere il fiore all’occhiello della Premier League di quest’anno, ma stanno soffrendo entrambi l’ingombrante presenza di Antonio Conte. Il suo Chelsea nel weekend è andato in casa del City a dare lezione di tattica, difesa e ripartenze: i Citizens sono andati in confusione, si sono illusi di poterla chiudere a loro favore in qualche modo – manco fossero i sondaggisti del comitati per il Sì – e sono stati puniti. La rissa finale con due espulsi e Pep che non dà la mano a Fabregas sono uno spettacolo che si vede nelle peggiori partite delle serie minori, tipo il derby di Roma in serie A.

 


Anche Elena Bonzanni, compagna del centrocampista del Watford Valon Behrami, ha seguito tutta la notte la Maratona televisiva di Enrico Mentana. Come si capisce dalla foto, lei era decisamente per il Sì


 

Uno s’arrabbia, si sfoga, alla fine di un derby dice cose che non dovrebbe e viene giustamente bacchettato per l’intemperanza. Ma perché il razzismo? Perché i calzini e le cinture che Lulic accusava Rüdiger di vendere in quel di Stoccarda fino a pochi anni fa solitamente vengono vendute da ambulanti di colore? E quindi? Questo fa del giocatore maleducato un maleducato razzista? Non stiamo esagerando? Non so, magari il giocatore della Lazio è intimamente convinto della superiorità genetica e morale della razza bianca, ma per quel che ne so io ha detto che il difensore della Roma qualche stagione fa valeva pochissimo, in termini calcistici, e ora fa il fenomeno. In questi tempi di Sì o No, di Leave o Remain non c’è però possibilità che parole del genere vengano interpretate se non come occasione per una campagna antirazzismo della Fifa (organizzazione maledetta che però è stata benedetta da un buona notizia: l’appello di Blatter è stato respinto, non sarà mai reintegrato). Ci tocca pure la lettera edificante di Legrottaglie: “Fossi in Lulic , poi, una cintura me la comprerei, riflettendo su quanto possa insegnarci: la cintura si stringe alla vita. E così dovremmo fare con il rispetto”. Poi uno si domanda perché nell’ex colonia che è l’avamposto di tutte le brutture politicamente corrette hanno finito con l’eliminare la parola “negro” da Huckleberry Finn. Speriamo che Espn non elimini la parola “calzini”. Spero invece che Ronaldinho, Gudjohnsen e gli altri bolliti che si sono offerti di giocare nel Chapecoense colpito dalla tragedia (incoronato ieri campione 2016 della Copa Sudamericana), ritirino al più presto l’offerta. I gesti di solidarietà cessano di essere tali se producono il contrario di ciò che si propongono di ottenere.