Gian Piero Gasperini (foto LaPresse)

Gasperini, l'allenatore che oggi genera talento come nessun altro

Beppe Di Corrado

Ha portato l’Atalanta lassù in alto. Alterna due cose  spesso in antitesi: mentalità contemporanea e anima nostalgica. L’importanza del vivaio: lo zoccolo bergamasco

Ogni tanto, ciclicamente, Gasperini torna al centro. Per come fa giocare le sue squadre e per dove le fa arrivare, ovvero un po’ più su di dove molti – quasi tutti – s’aspettano. Genoa prima, Atalanta adesso. Ecco, tra le due cose, ovvero come e dove, tutti – o meglio sempre quasi tutti – si concentrano soprattutto sulla seconda. Perché fa scena e perché è esattamente ciò di cui giornali e televisioni, ovvero noi, abbiamo bisogno: una storia nuova o se non nuova comunque bella. A volte è come se ci dimenticassimo che il dove in questi casi dipende sempre dal come. Che invece è ciò che interessa a Gian Piero Gasperini. Perché se gli chiedete che cosa pensa della sua Atalanta di adesso, dei suoi 28 punti, del quarto posto condiviso con la Lazio, della distanza di un solo punto dalla Roma e dal Milan seconde e ad appena cinque dalla Juventus, lui dice più o meno questo: “L’obiettivo è già raggiunto, ci salviamo tranquillamente, i nostri giovani sono sotto i riflettori e, strada facendo, ci toglieremo altre soddisfazioni. Ogni altro discorso è prematuro”. E’ un discorso simile, molto simile, a quello che si fa sempre in situazioni così. Fino alla fine del girone d’andata della Premier League dell’anno scorso lo faceva anche Claudio Ranieri al Leicester.

 

 

Qui bisogna fermarsi un momento. Perché il paragone con i Foxes è diventato un ritornello. E i punti di contatto ci sono, chiaramente. Però se chiedi ai tifosi dell’Atalanta, scoprirai che per quanto la storia del Leicester sia entusiasmante e per molti versi un esempio, le cose per loro stanno diversamente: “Il Leicester? Non siamo nemmeno simili: l’Atalanta è una squadra piccola davvero, non abbiamo i soldi thailandesi dell’undicesima persona più ricca del mondo, il nostro presidente giocava nell’Atalanta, da giovane, prima di diventare imprenditore. Noi siamo umili, e ce ne vantiamo”. Gasperini, per la verità, al modello Leicester non ha mai pensato, né fatto accenno. E’ un’equazione di altri, non sua. Lui ha in testa un’altra cosa e questa sì l’ha detta: “Bilbao”. Nel senso dell’organizzazione, più che della aderenza territoriale. Il vivaio come generazione di talento e identità, a prescindere dalle origini dei calciatori. Quelle semmai devono stare altrove, nella testa e magari nel portafogli di proprietari e presidenti. “So che ho visto molti stranieri scarsi, so che si preferisce portare soldi all’estero, ma non sono affari miei”, ha detto a Gianni Mura. “La vera forza del nostro vivaio non è solo nel numero di ragazzi in gamba, ma nel fatto che gente come Caldara, Gagliardini, Conti, Grassi e Sportiello gioca insieme da più di dieci anni. Kessié è cresciuto qui, Petagna arriva dal Milan e Spinazzola dalla Juve, ma lo zoccolo duro è tutto bergamasco. Percassi, il nostro presidente, ha giocato con questa maglia ed è bergamasco. Credo che così sia più facile, quasi naturale, allestire un buon vivaio, trasmettere il senso d’appartenenza. Mi piacerebbe che il presidente del Pescara fosse di Pescara, quello del Bari di Bari, quello della Spal di Ferrara, quello del Napoli di Napoli. Non è una questione politica né di campanile. Penso ci sarebbe più passione e meno calcolo”.

  

I capitali stranieri non sono un problema, ma per lui neanche una necessità. E’ un tipo interessante, perché alterna due cose che spesso sono in antitesi: mentalità contemporanea e anima nostalgica. La prima si vede in campo. Oggi non c’è una squadra più contemporanea dell’Atalanta. Quella che viene subito dopo è il Genoa, che sarà un caso o no, è stata sua fino a giugno ed è allenata da un ex calciatore che è cresciuto con Gasperini. La contemporaneità sta nell’aggressività intelligente, nella preparazione fisica che è la base sulla quale innestare poi la tecnica, sull’idea che l’organizzazione di squadra sia più utile dell’individualità, dell’estro, della fantasia, del talento. La nostalgia invece sta altrove, in quell’idea che tutto questo nasca dove ormai abbiamo pensato che nasca poco, ovvero nei settori giovanili. Quello che ripete spesso Gasp è che l’80 per cento di ciò che oggi fa da allenatore è esattamente identico a quello che faceva in Primavera, negli Allievi, nei Giovanissimi. E’ lì che torna, con la testa. Perché è lì che è cominciato il percorso: “A livello personale e didattico è stata una palestra incredibile. Mi ricordo il primissimo allenamento che ho fatto con i bambini in campo. Mi ero portato una cartellina che avevo appoggiato in panchina, ogni tanto mi avvicinavo e sbirciavo. Avevo paura di non fare le cose così come le avevo preparate. Pensavo: ma sto facendo bene? I ragazzi mi hanno dato una cosa che spero di non perdere mai: l’entusiasmo. Ai ragazzini gli dai un pallone e giocano, ogni tanto gli metti qualche regola, ma loro si divertono comunque. Giocano per giocare. Giocano per il calcio. E si riesce anche con i professionisti: l’animo con cui sono cresciuti e con cui hanno cominciato a giocare a calcio è quello. Io vedo ancora tanta passione. Ci dev’essere per forza, quella. Molti sono ancora dei ragazzi, sembrano adulti ma sono giovanissimi. Comunque in questi ultimi anni credo che la qualità degli spogliatoi sia migliorata, ci sono meno lamentele, meno capricci, anche perché le società e gli allenatori sono cambiati: a parità di valore in campo, ora considerano molto la persona”.

 


Gian Piero Gasperini (foto LaPresse)


 

E’ un discorso che torna a ogni intervista, in ciascun intervento. Come se Gasperini voglia ostinatamente essere uguale a se stesso di qualche tempo fa. Per molti è stato questo a rendere complessa la sua avventura all’Inter. Per lui, invece, è stata un’altra cosa: il tempo, o meglio la sua assenza. E l’invadenza della dirigenza nelle scelte tattiche. E’ lo scotto che pagano quelli che vengono dalla gavetta: arrivano in una grande squadra ed è come se i dirigenti non si fidassero fino in fondo delle decisioni. La difesa a tre? No, meglio a quattro. Vuoi giocare a quattro in mezzo? Forse meglio se stiamo a tre. “E’ vero che la difesa a 3 era vista con ripugnanza. All’Inter sono rimasto troppo poco per poter fare danni. I danni li ho subìti, semmai. Poi, è stata una soddisfazione, col Genoa, arrivargli davanti”. Ecco, se c’è una cosa che non gli manca è l’onestà, intellettuale e no. Gasperini dice quello che pensa e lo dice come lo pensa. Non gli sentirete dire una parola politicamente corretta che non sia sentita, non gli sentirete edulcorare racconti, sfaccettature, discorsi, retroscena. A Genova è rimasta mitologica la sua sparata contro gli ultrà, che pure lo amavano in larghissima parte. C’era chi contestava. Una, due, tre, quattro volte. Gasp andò in tv e fece i loro nomi: “Era una situazione insostenibile, che limitava il rendimento della squadra e aveva portato a una spaccatura all’interno del tifo organizzato. Mi accusavano di aver firmato il contratto sapendo già che Preziosi avrebbe venduto i pezzi migliori. Mi è stata proposta una scorta, una cosa assurda per chi si ritiene una persona onesta. In tv ho fatto tre nomi: con due di queste persone è sopravvenuta una certa chiarezza. La terza mi ha querelato e ha perso la causa. Aggiungo che in questa storia è stato fondamentale l’appoggio della stragrande maggioranza dei tifosi genoani. Storia chiusa. Mai pensato di essere un eroe. E’ che certe situazioni o le subisci o ti ribelli. Oggi è troppo facile denigrare, anche fuori dal calcio, anche su basi inesistenti. Spesso mi chiedo se questo eccesso di pareri sia una grande conquista democratica oppure una grande sconfitta civile”.

 

E’ da tempo che Gasperini ha dei dubbi sul parerismo, ovvero sulla dilagante mania del ciascuno dica la propria. E’ un tema sentito dagli allenatori, spesso. Perché è a loro che il parerismo si rivolge. Pensate: chiunque in pubblico dice la sua su una scelta che voi avete fatto nell’esercizio della vostra professione. Come vi sentite? L’allenatore lo sa, certo. Fa parte della sua carriera, oltre del suo ruolo. E’ uno dei rischi. Ma ciò non significa che lo si debba condividere. Eppure agli allenatori è paradossalmente vietato contestare chi li critica. Possibile? Giusto? Con lui poi bisogna fare una riflessione in più. Parte da Coverciano, dai tempi del supercorso per prendere il patentino da allenatori di Serie A e da una ricostruzione diventata verità anche se non è vera. Cioè che lui insegnasse lì, ovvero che fosse un allenatore degli allenatori. “Questa di Coverciano è una leggenda metropolitana. Io non ho mai insegnato lì, sono venuti molti tecnici del corso a vedere i miei allenamenti a Genova, ma come fanno molti allenatori di altre squadre. Semmai studio. Il calcio è una materia che cambia, si evolve: per quanto le dimensioni del campo e il numero dei giocatori siano sempre gli stessi, il metodo di lavoro e la preparazione cambiano costantemente”.

 

Il lavoro, dice. Il lavoro, pensa. Il lavoro, fa. Per Gasperini ci sono poche altre certezze. Il lavoro è il timone, tieni quello e terrai dritta la nave. Il resto sono sentimenti, emozioni, sensazioni. Sa che non si possono tenere fuori, quantomeno non del tutto. Fino a pochi anni fa, diceva che quando c’erano partite importanti si agitava e spesso di notte si svegliava per pensare al match. Oppure che faceva fatica a dormire se non vinceva, perché ripensava, anche nel mezzo della notte, di aver sbagliato qualcosa, da un movimento a una marcatura. Basta? No. “Il lunedì è condizionato tutto dal risultato della domenica. E quando vinco sono più nervoso di quando perdo. Sì, non riesco a scaricare l’adrenalina per tutto il giorno dopo. E’ una forma di dipendenza che ci portiamo dietro”. Era il 2008, non una vita fa. Oggi non dovrebbe essere cambiato, è più probabile che siano cambiate le domande. Perché ci si abitua alla bravura e una volta che sei considerato bravo anche le cose che si cerca di scoprire di te sono diverse. Oggi a Gasperini chiedono tutti se gli sta qua il fatto di non aver mai avuto la possibilità di realizzare il suo sogno, ovvero di allenare la Juventus. Che per uno nato nella cintura di Torino, cresciuto tifando Juve, diventato poi calciatore e successivamente allenatore delle giovanili della Juve, è un po’ come essere arrivato all’esame di laurea e essere stato rimandato indietro. “Per due volte ho avuto contatti, quando la squadra era in B e poi ai tempi di Secco e Blanc. Alla Juve sono grato perché è stata una scuola di vita, perché mi ha trasmesso valori che oggi possono sembrare anacronistici: la disciplina, il senso di appartenenza, il rispetto dei ruoli e degli avversari. Quello che ho imparato ho cercato di insegnarlo da allenatore. Mi pagavano poco, ma mi permettevano di girare molto. Il 3-4-3 mi ha folgorato a un allenamento dell’Ajax, credo fosse il 1997. Prima, venendo dalla scuola Catuzzi-Galeone, guai a toccarmi il 4-3-3. Ma mi ero stancato di frenare il terzino destro e spingere in avanti il sinistro, o viceversa”.

 

Avrebbe potuto allenare il Torino, invece. Per due volte, e l’ha raccontato lui, è stato vicinissimo. Ha trovato se stesso a Genova, dove di fatto ha costruito la sua carriera e la possibilità di arrivare oggi a imporsi come l’allenatore che genera talento come nessun altro. Qualche tempo fa, se aveste chiesto a tutti gli allenatori della Serie A chi fosse quello più interessante, avreste sentito molti dire Gian Piero. Del suo Genoa Mourinho disse: “Gioca un grande calcio”. Ancelotti: “Non smettono mai di crederci”. Dopo una prestazione pazzesca a San Siro, qualcuno scrisse così: “Gian Piero Gasperini, capace di disegnare splendide formazioni e splendide giocate, proprio come architetture mirabili. Capace di trasformare il calcio in un’opera d’arte. Che ti sembra ancor più bello se sei abituato a guardare calcio che sta all’architettura come la diga di Begato o le Lavatrici stanno alla bellezza delle strutture di Valencia. Quando segni di tacco, anche il rude Jankovic e persino Juric ti sembrano bellissimi, quasi fossero la continuazione in campo delle Storace’s-girl, le ragazze che scortano in tribuna l’addetto stampa rossoblù Dino Storace o che trasmettono su Genoa-live, la bruna sensualissima, la bionda dolcissima, la Lavinia elegantissima e tutte le altre, trasformando il Ferraris in una specie di passerella. Quando segni di tacco, persino l’oscena fascetta per i capelli sfoggiata da Alessio Scarpi a San Siro sembra roba da sfilata di moda. Quando segni di tacco, tutto ti sembra più dolce”. Il tempo ha dato un po’ per scontato quello che fa. Sono passati quasi dieci anni in fondo e lui, Gasp, è per il calcio italiano ciò che per lui è il lavoro: una certezza. Con il rispetto totale del lavoro fatto a Genova, senza il quale non ci sarebbe stata l’Atalanta di oggi, ciò che sta accadendo a Bergamo in questa stagione è di più. E’ una magia contagiosa. Una magia che stava per finire presto. Avrebbe potuto essere esonerato a inizio stagione, invece la società ha insistito, lui ha insistito, i calciatori hanno insistito. Non c’è altra via, in fondo. Ciascuno il suo. L’allenatore fa l’allenatore, punto. “Non faccio il confessore o il fratello maggiore dei giocatori. Non cerco il dialogo a tutti i costi. Quello che ci unisce è la professionalità. Se qualcuno mi cerca, sa dove trovarmi. Mi ritengo una persona discreta ma so affrontare i problemi. Piemontese falso e cortese, neanche un po’. La falsità è la cosa che odio di più nelle persone e nelle reazioni sono troppo schietto e immediato per essere cortese. E comunque tifo per i giovani, non solo i nostri, non solo i calciatori. Ai giovani abbiamo complicato la vita, ci siamo mangiati un pezzo del loro futuro, ma sono in grado di costruirne uno migliore”.

 

Oggi c’è la Juventus. Ha detto: “Se la battiamo facciamo la storia”. Avrebbe potuto dire molte altre cose, soprattutto cose scontate. Non si è trattenuto, Gasperini. Come sempre, a dispetto di un look da uomo che potrebbe dire solo la cosa giusta, preferibilmente contenuta. Ha detto quello che pensa. Quello che sente. Basta così.

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