Perché accontentarsi di una medaglia di bronzo vuol dire morire di deflazione

Giulia Pompili
Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con lo sport agonistico in prima persona conosce bene la sensazione. Si tratta della rilassatezza con cui l’atleta gioca una partita in cui è in ballo la medaglia per il terzo posto, dopo aver perso una semifinale.

Roma. Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con lo sport agonistico in prima persona conosce bene la sensazione. Si tratta della rilassatezza con cui l’atleta gioca una partita in cui è in ballo la medaglia per il terzo posto, dopo aver perso una semifinale. Non è un ragionamento conscio, una strategia: semplicemente il cervello si accontenta di un obiettivo a metà, la medaglia di bronzo, e il corpo combatte per quel risultato intermedio con più serenità. Negli sport in cui ci sono due terzi posti, e la vittoria ai quarti di finale assicura comunque una medaglia, la sensazione è ancora più evidente: meglio un dignitoso bronzo che essere il primo dei perdenti.

 

Ma l’ovvia verità è che se non giochi la finale, non giocherai mai per l’oro. Nel 1995 l’Associazione degli psicologi americani ha pubblicato un report, ripreso pochi giorni fa da Quartz, che tenta di dare una spiegazione scientifica al fatto per cui il bronzo rende più felici gli atleti olimpici rispetto alla medaglia d’argento. Gli psicologi della Cornell University e dell’Università di Toledo hanno concluso che si tratta delle conseguenze del cosiddetto pensiero controfattuale – in psicologia, il pensiero controfattuale è quello delle “sliding doors”, ovvero il “cosa sarebbe successo se solo…”. L’atleta che arriva a giocare la finale e la perde viene rabbuiato dal pensiero controfattuale di una eventuale vittoria: “Cosa sarebbe successo, se avessi fatto quel punto o se non avessi preso quel punto?”. L’atleta che ha raggiunto il terzo posto perdendo nella semifinale, invece, combatteva tra l’ipotesi di una medaglia oppure niente. Dunque, si è accontentato. Ma è sempre un bene? E non è che questo atteggiamento inconscio sia in realtà il riflesso di un modo di essere, di pensare la società?

 

La metafora sportiva dell’“accontentarsi” senza rischiare è stata usata dagli economisti per descrivere la realtà del Giappone, un paese che ha smesso per più di un decennio di giocarsi le finali ed è finito in una spirale inarrestabile di deflazione e stagnazione economica. Per il Giappone l’Abenomics non è abbastanza perché il problema è soprattutto dei giapponesi, dell’iniziativa privata e del rischio economico che evitano come un lottatore di judo alla finale olimpica. A gennaio Leo Lewis sul Financial Times raccontava proprio la generazione dei ventenni giapponesi, nati quindi all’inizio del periodo della “morte lenta” della deflazione, che oggi sono convinti di dover risparmiare e accumulare denaro senza investire, o comunque “rischiando il meno possibile”. La cultura degli affari in Giappone si è fermata, nonostante i deboli segnali dal mondo delle startup. Non è un caso se il medagliere nipponico di Rio conti più bronzi che ori. Aspettando Tokyo 2020.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.