Roberto Mancini (foto LaPresse)

La Cina è Mancina

Maurizio Crippa

Un pomeriggio triste, sul ciglio del calcio che conta a contemplare il Mancio che se ne va, l’ultima icona della “Pazza Inter Amala”.

“Come attestano le gazzette e come fedelmente trasmette la vox popoli, ha ricevuto in dono da Dio un piede solo, il sinistro. Il destro gli serve per bellezza” (Edmondo Berselli, “Il più mancino dei tiri”).

 

Destro naturale di cristallina bellezza, elegante come il Verdicchio di Jesi, le rare volte che il Verdicchio di Jesi vien fatto a regola d’arte; difficile negli abbinamenti, ad andare d’accordo (il vino, come l’uomo di calcio), ora che non gioca più il Mancio ha tutti e due i piedi che gli servono di bellezza. Per portare elegantemente a bordo campo la sua arroganza fragile, per tenere su diritte le sue idee cocciute e le sue rotture inevitabili. Così adesso, al più naturale dei destri i cinesi hanno fatto il più mancino dei tiri. Dopo un tira e molla durato un’estate, ma prima dell’estate c’era stato il lungo inverno del Nostro Scontento, trascorso sull’orlo di una crisi di  nervi e sull’orlo di un precipizio di classifica. Sul punto di andarsene, incaponito su come tenere il punto.

 

L’hanno cacciato, per dirla semplice. Per una volta non è stato lui a infilare la porta. Ma siccome i cinesi sono gente svelta di testa e felpata di mano, il lavoro sporco ufficialmente l’hanno affidato al paffuto indonesiano che ormai conta meno di Verdini nel patto del Nazareno. E’ con Thohir che il Mancio aveva iniziato a bisticciare. Voleva Yaya Touré, gli hanno preso Medel; voleva il gioco sulle fasce, gli prendono Candreva (Gesù mio! Candreva); voleva il gioco offensivo e quelli vogliono vendere Icardi; voleva fare il manager all’inglese, gli hanno messo sotto il naso da firmare un contratto in cui, sul mercato, non deve toccare palla. Praticamente come Verdelli nelle strategie informative della Rai.

 

Così un pomeriggio di domenica triste, sul ciglio del calcio che conta a contemplare i Red Devils del Filosofo e di Ibra, prima partita e primo titulo, insomma uno di quei pomeriggi passati a dirsi vabbé che importa? anche noi una volta siamo stati felici, ti presentano la notizia che il Mancio se n’è andato. Che hanno vinto i cinesi. Ma chi altro avrebbe dovuto vincere?

 

Così poi, una domenica sul ciglio triste del calcio che conta, tocca pure fare i conti mentali, e non ne avresti voglia, con un popolo o popolino di Orfani Buscia che dicono: be’, ma perché dovrebbe dispiacerci se il Mancio se ne va? E sotto il profilo squisitamente tecnico, come dicono i tecnici, magari anche. Ma è la risposta sbagliata, la risposta vera è un’altra.

 

Perché tolto José Mourinho, il Filosofo di Setubal che siede in eterno nell’alto dei cieli, intangibile come Shiva avvolto dal suo cosmico potere seduttivo, c’è soltanto un altro allenatore ad avere interpretato alla perfezione l’anima dell’Internazionale Football Club di questi decenni. L’anima dell’Inter morattiana, quell’ammaliante, perturbante e regolarmente desolante wannabe squadrone, wannabe “màs que un club”. Quel “Pazza Inter amala” cantata come  un concerto del Boss, quel sogno infinito sempre dietro la curva del prossimo calciomercato. Le imprese esaltanti di certe vittorie impreviste e leggendarie, e certe figure di merda che soltanto noi. Il campionato all’ultimo secondo vinto da Ibra sotto la pioggia di Parma, quel diamante nero di Balotelli buttato nella mischia a 17 anni. Quell’eleganza fighetta in panchina e nella tribuna dei vip, così lontana dall’aziendalismo berlusconiano, così opposta alla spocchia provinciale di Torino. E poi, diciamocelo: quel suo scudetto più bello, quello meritatamente vinto a tavolino e al cospetto di Dio, contro la Triade Gobba. Roba da amarlo, il Mancio, come si amano gli amori che non torneranno più.

 

Ma poi, una domenica triste a contemplare sul ciglio della strada il calcio che conta, ti dicono che arriva Frank De Boer. E non devi neanche pensarci su, perché la risposta la sai già, cristallina come un Verdicchio di Jesi, maledetta come il più mancino dei tiri: se c’è una cosa che non c’ha mai, ma mai, ma mai, azzeccato, con l’Inter, col suo Dna pazzo e notturno, col suo irrazionale cuore tutto grinta e femminilità, sono quei precisini degli olandesi. Ma coi cinesi, in fondo, cominciamo bene: hanno già  iniziato a non capire di che pasta sono fatti, i Fratelli Bauscia. Che sia destro o mancino, si parte col piede sbagliato.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"