Gli ultimi 16 metri, l'habitat ideale per Icardi, l'inferno per Consigli
La riproposizione del centravanti che fu, un apparente passo indietro di decenni. E che si tratti di un male, resta comunque tutto da dimostrare. Perché Mauro Icardi è la risposta concreta a tutti quegli allenatori che chiedono ai loro calciatori di essere intensi, di aggredire gli spazi, di non restare fermi in attesa di un benevolo passaggio. Lui non è centravanti di manovra, magari così bravo ad appoggiare il gioco e, nei fatti, incapace di inquadrare la porta. Lui è attaccante vero: quindici gol con l'Inter in questa stagione, tutti ben dentro l'area. L'argentino non vive sul filo perenne del fuorigioco, pronto a ingannare sullo scatto un avversario come un assistente dell'arbitro, dall'occhio non posizionato e dalla bandierina incerta. Per la verità, la prima rete contro il Napoli è nata proprio in questo modo, ma è stata più un caso che un'abitudine. Perché Icardi non sa vivere al di fuori dei sedici metri finali, va in debito di ossigeno se si allontana dall'area altrui.
Uno vecchia maniera, per l'appunto, come furono l'immenso Gerd Muller per la Germania (ancora ovest) e il più ruspante Roberto Boninsegna in Italia. Gente che sarebbe stata spazzata via dal calcio olandese ma che è bello ritrovare oggi, come un oggetto dimenticato a lungo in soffitta e riscoperto con piacere, e con una furtiva lacrima. Icardi impersona tutto questo e, ancor più, la possibilià per l'Inter di poter tornare domani una squadra in grado di diventare un'alternativa credibile nella lotta per lo scudetto. Lui sarà infatti la cartina di tornasole al prossimo mercato: se non si muoverà da Milano per dare respiro alle casse nerazzurre, allora diverrà il segnale di un desiderio di voler tornare grandi. Anche perché Icardi, oltre a segnare, ha dimostrato di essere qualcosa d'altro al di là degli stucchevoli selfie con Wanda Nara e della mancate strette di mano da parte di Maxi Lopez per una storia irrisolta di tradimenti amorosi e dispetti di famiglie che non riescono a essere allargate. Lo ha fatto con gli atteggiamenti, accettando le scelte di Roberto Mancini, anche quando posizionava in panchina quello che è il suo capitano e, quindi, il suo uomo simbolo. Lo ha fatto con le parole, mai sopra le righe anche quando avrebbero potuto esserlo. E lo fa con i gol, come ogni tifoso chiede al proprio attaccante.
Allo stesso modo, ogni tifoso chiede al proprio portiere di evitare di incassare reti. Eppure il calcio moderno (di nuovo...) ha chiesto una profonda formazione, resa necessaria da quando Sepp Blatter negò a chi stava in porta la possibilità di gestire con le mani il retropassaggio di un compagno. Solo piedi, si chiesero, per velocizzare le azioni e per impedire stucchevoli meline nei finali di gara. Una scelta che ha trasformato i portieri in elementi chiamati a sostenere il gioco, con esiti a volte esilaranti, purtroppo per loro. Come capitato a Firenze ad Andrea Consigli, il cui tentativo di passaggio di prima intenzione, su appoggio all'indietro di un compagno, si è trasformato in un'autorete degna della nomination a fesseria dell'anno. Un incidente raro ma non inconsueto per dinamica, quello del portiere del Sassuolo, andato a rinfrescare la memoria granata per quanto combinò Daniele Padelli quasi un anno fa in Torino-Empoli. E che si imprime nell'immaginario collettivo più di mille parate, lasciando il portiere nella solitudine del proprio errore. Inemendabile, come capita a chi ricopre il ruolo di ultimo controllo nella catena del lavoro. E in attesa che uno sciagurato collega ne compia uno peggiore per poter essere dimenticato.
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