Il presunto doping inglese, le inchieste giornalistiche e una domanda: a cosa serve l'agenzia antidoping?

Giovanni Battistuzzi
Vent'anni di sostanze dopanti scoperte grazie alle colonne dei quotidiani tra il silenzio e lo sbigottimento di Wada e compagnia. L'ultima è l'inchiesta pubblicata dal Sunday Times sul medico inglese Marc Bonar. Una timeline per scoprire quanti buchi ha preso chi dovrebbe controllare la "pulizia" dello sport.

L'inchiesta è ancora una volta del Sunday Times. Questa volta non c'entra Lance Armstrong o l'atletica leggera: è il sistema sportivo britannico ad essere preso di mira. Secondo le indagini del quotidiano inglese almeno centocinquanta atleti di vertice tesserati per società inglesi si sarebbero avvalsi della consulenza del medico londinese Mark Bonar. Niente di illegale se non fosse che il dottore trentottenne avrebbe consigliato loro l'uso di sostanze dopanti e avrebbe suggerito il modo più semplice per acquistarle: dagli steroidi all'eritropoietina, dagli anabolizzanti agli ormoni, centinaia di sostanze illecite sarebbero state "prescritte" dal professore a calciatori, fondisti, body builder, ciclisti e boxeur.

 

Non è il primo caso, non sarà l'ultimo, ma quanto scoperto dal Sunday Times, qualora fosse dimostrato dalla giustizia, sportiva e non, sarebbe l'ennesima dimostrazione dell'incapacità delle federazioni e degli organi nazionali e internazionali dell'antidoping di arginare, prima, e scoprire, in seguito, il ricorso degli atleti a pratiche dopanti.

 

Negli ultimi vent'anni infatti tutti i grandi scandali legati al doping non sono mai stati portati alla luce da chi dovrebbe monitorare sull'utilizzo e sulla distribuzione di sostanze vietate tra gli atleti. E' stato o il caso, come nello scandalo Festina, oppure il mondo del giornalismo a svelare i meccanismi illeciti che sottostanno allo sport professionistico: lo dimostrano il caso Armstrong, lo scandalo doping che ha riguardato l'atletica leggera, quello che ha poi portato all'Operacion Puerto (partito dalle rivelazioni pubblicate dalla stampa spagnola da un ciclista e a lungo ignorate dalla giustizia sportiva).

 

 

Fu lo scandalo doping al Tour de France del 1998 a convincere il Comitato olimpico internazionale (Cio) a istituire la World Anti-Doping Agency (Wada) il 10 novembre 1999 per coordinare la lotta contro il doping nello sport. In questi 16 anni e mezzo però la Wada non è riuscita a trovare né le contromisure per affossare l'utilizzo di sostanze illecite, né tantomeno a coordinare e controllare le agenzie nazionali. Il risultato è stata una confusione normativa e di controlli che ha portato solo a risultati minimi in molti sport e un disequilibrio nel controllo degli atleti tra le varie discipline. La domanda che sorge a questo punto è questa: ma se sono i giornalisti a portare alla luce dati ematici che le agenzie antidoping nazionali possiedono (nel caso dello scandalo dell'atletica) e riescono a scoprire l'utilizzo e la prescrizione di sostanze dopanti tracciabili e riscontrabili dalle analisi che vengono regolarmente effettuate agli atleti, mentre la massima autorità resta in silenzio e non si accorge di quanto accade, a cosa serve la Wada?

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