Kobe Bryant (foto LaPresse)

Con Kobe Bryant se ne va un eroe imperfetto di cui l'America ha bisogno

La leggenda dei Lakers lascia il basket con una poesia. La fedeltà ventennale al gialloviola ha cementato il rispetto universale nei suoi confronti, ne ha benedetto la statura. L’America ha sempre bisogno di eroi

New York. La fine di Kobe Bryant inizia con un “caro basket”, primo verso di un componimento poetico di forma e metro incerti apparso ieri sul sito The Players’ Tribune. Con una poesia sghemba la leggenda annuncia l’abbandono a fine stagione, lui che non ha mai “visto la fine del tunnel” ma soltanto “me stesso uscire da uno” conclude una carriera che non lo ha consacrato soltanto come uno dei migliori giocatori di sempre, ma anche come eroe eponimo americano. Non è uno status che si conquista soltanto facendo punti, e lui ne ha fatti tanti, nella classifica è anche sopra a Michael Jordan, ma ricavandosi nel cuore dell’America lo spazio che spetta ai simboli, ai modelli di riferimento.

 

La fedeltà ventennale al gialloviola dei Los Angeles Lakers ha cementato il rispetto universale nei suoi confronti, ne ha benedetto la statura, faccenda importante nel paese in cui anche un re come LeBron James deve lasciare Miami e tornare nella sua Cleveland per compiere fino in fondo la promessa regale. L’America ha sempre bisogno di eroi. E ne ha un bisogno disperato in questo tornante della storia segnato dal disimpegno, dal ritiro, dall’affievolirsi della grande fiaccola americana, e si sente la mancanza di quel tipo di genio capace di stampare, manzonianamente, un’orma più vasta, di lasciare un segno nella storia.

 

 

Bryant il suo segno nella storia lo ha lasciato, e non è il segno del talento mostruosamente superiore per doti fisiche o tecniche, la sua non è l’epica del predestinato. E’ una storia di furbizia e senso tattico, la capacità di introdurre elementi innovativi nel gioco, non soltanto di fare incredibilmente bene quel che già avevano fatto altri prima. E i riflettori proiettano anche un inevitabile cono d’ombra: quelle accuse di violenza sessuale finite con le scuse di Bryant ma senza incriminazione, un incontro da lui definito “consensuale”.

 

Non è la perfezione la cifra del contributo di Kobe. Larry Bird dice che gli anni dell’infanzia passati in Italia lo hanno penalizzato, privandolo dell’iniziazione nei playground di periferia con la catena al posto del cotone, la scuola cestistica popolare d’America; ma c’è anche la tesi contraria: l’Italia ha permesso a Kobe di portare un pezzetto di tattica calcistica sul parquet, tratto di originalità ineguagliabile.

 

Quelli bene informati dicono che la decisione è stata presa tre anni fa in una steakhouse di Minneapolis, quando improvvisamente si è reso conto che le gambe degli avversari più giovani lo avrebbero presto umiliato, e da qualche tempo in campo si vede lo spettacolo mesto del supereroe al quale hanno tolto i poteri. L’andamento generale della squadra non ha aiutato, si capisce.

 

Questa stagione, l’ultima di Kobe, finirà se va bene ai playoff. L’anello che ha disperatamente agognato, il sesto, quello che lo avrebbe portato a pari merito con Jordan è un miraggio. “Questa stagione è tutto quello che mi rimane da dare/ Il mio cuore può reggere il colpo/ La mia mente può sopportare la routine/ Ma il mio corpo sa che è ora di dire addio” ha scritto il versificatore Kobe. Questione di corpo, di materia muscolare, di fibre che cedono e tessuti che si rilassano. Ma in conferenza stampa ha aggiunto un aspetto meditativo, uno sfondo quasi zen: prima la mente si muoveva sempre e solo verso il basket, pensiero fisso e orizzonte in cui tutti gli altri pensieri venivano abbracciati e ricompresi. Ora, ha detto, non è più così. C’è una vita oltre al parquet, c’è un mondo fuori dal campo.

 

Potrebbe andare avanti, Kobe, in qualche altro modo, ma non ne ha più voglia, non a queste condizioni.

 

La lunga stagione delle vittorie, dei paragoni azzardati con Jordan e altri pezzi della mitologia del basket, quella in cui Kobe lavorava per ricercare la perfezione, niente di meno, quella degli 81 punti in una partita – il record rimane a cento, ma erano gli anni Sessanta – e della vittoria, da solo, contro i Dallas Mavericks e degli alley-oop con Shaq è irrimediabilmente chiusa. Di questo tipo di eroe sportivo e umano l’America sentirà la mancanza.

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