Un libro sul rugby per riscoprire l'arte del corpo atletico e le regole sociali

Alfonso Berardinelli
Di rugby, come di troppi altri sport, non so niente. Ma non avrei mai immaginato che se ne potesse parlare come di un metodo e di un processo educativo da riscoprire.

Di rugby, come di troppi altri sport, non so niente. Ma non avrei mai immaginato che se ne potesse parlare come di un metodo e di un processo educativo da riscoprire. L’idea, non so se più per passione o per disperazione, è venuta in mente a un cinquantenne insegnante di liceo e critico letterario che vive e lavora in Veneto, Nicola De Cilia. La passione, benché tardiva, lo ha rapito come racconta lui stesso “in un bel pomeriggio di settembre” ed è stato “come incontrare, dopo anni, una compagna di scuola delle elementari e accorgersi improvvisamente della sua bellezza”.

 

Bisogna dire che il rugby non è esattamente una bella donna. La bellezza, però la si vede se la si sa e la si vuole vedere. Ce n’è un po’ e inaspettatamente dovunque e in ogni testa covano silenziosamente i presupposti di piccole o grandi scoperte. Che la caduta di una mela dall’albero potesse far capire che agisce una cosa eterna come la “gravitazione universale”, nessuno l’aveva indovinata prima di Newton. Evidentemente, se è vero che ogni conoscere è un rimemorare, secondo Platone, la mente o la memoria di Newton deve essere stata toccata in quell’attimo dalla grazia di Dio.

 

A Nicola De Cilia è toccato invece il destino di scoprire che il rugby era la cosa che ci voleva per far crescere bene i giovani. E qui mi sembra di vedere che dentro la sua passione c’è una parte di disperazione. Si può anche capire. Noi italiani, più di altri popoli, come insegna il nostro Pinocchio, siamo refrattari alla pedagogia, all’autoperfezionamento e al gusto di operare all’interno di regole precise, che possono esaltare e non reprimere l’espressione delle proprie energie. Essendo un insegnante e un italiano che dispera della capacità dei propri compatrioti di governare se stessi, De Cilia si è innamorato del rugby come  “buona scuola”, migliore di quella che riescono a inventarsi i nostri cinici e distratti governi. Da tutto questo è nato un libro, “Pedagogia della palla ovale. Un viaggio nell’Italia del rugby” (Edizioni dell’Asino, 222 pp., 12 euro). Il volume si chiude con un testo estratto da uno spettacolo di Marco Paolini.

 

L’autore non ha mai giocato a rugby e ormai, mi sembra, non ha l’età. Il suo senso etico, sociale e pedagogico è bastato tuttavia a fargli vedere e amare, in quel bel pomeriggio di settembre e al di là di tutte le regole del gioco, “la danza del pallone tra le mani dei giocatori”, l’agilità del gioco, “la potenza delle mischie”, le brusche accelerazioni, la “coralità dei movimenti di attacco e difesa” e infine lo spettacolare, teatrale lancio di un calcio di punizione.

 

Da bravo insegnante, per riscaldare l’indifferente cuore del lettore colto, De Cilia, dopo aver sventolato qualche allusione dantesca, finisce per citare Giacomo Leopardi, secondo cui “il corpo è l’uomo” e “tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono (…) Ma tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito”.

 

Come sempre Leopardi ha ragione… Ne sa qualcosa sia perché lui si è rovinato proprio così, sia perché conosceva e ammirava, al di sopra di ogni altra, la cultura greca del corpo bello, sano e forte e diceva che i Greci erano uomini, mentre noi moderni siamo bambini.

 

Da questo trampolino leopardiano De Cilia fa un salto, due, tre e molti in diverse città e regioni italiane: Veneto, Lazio, Lombardia, Sicilia, Campania per la sua lunga inchiesta sullo “stato dell’arte” rugbistica, tra professionismo e campetti di periferia. In questa inchiesta mi sono un po’ perso: sia perché non sempre capivo i problemi, dato che del mondo sportivo ignoro tutto, sia perché fra una lode del rugby come sport eticamente “pulito” rispetto al calcio e una deplorazione, viceversa, della sua perdita di purezza e nobiltà, non mi sono chiarito le idee e alla fine non so che pensare. Ogni intervistato, comunque, nelle mani di De Cilia riesce a essere un personaggio, un maestro di vita e una specie di filosofo. Di uno di loro, De Cilia dice che “si esprime in modo asciutto, sicuro, che ricorda lo stile dei commentari di Giulio Cesare: ‘Vedere, capire, agire. Questi i fondamenti di un bravo giocatore (…) la reattività nasce dalla comprensione’”.

 

[**Video_box_2**]Già, dalla comprensione. Certo è che reagire e agire senza avere né visto né capito è un vero guaio. Bello e interessante mi sembra che il vedere venga messo prima del capire. Oggi guardare e vedere è cosa sempre più rara perché gli occhi sono devoti anzitutto al dio display e la realtà fisica è ignorata. Infine un dubbio e un’obiezione possibile. L’uso del corpo ben connesso all’uso della mente dobbiamo impararlo dagli sport competitivi? Giocare a palla, football, rugby, basket o palla a nuoto, è stata in molte civiltà una bella invenzione. Ma c’è bisogno di competere e fare punti per valorizzare il corpo? Forse è vero che, alla lontana, le competizioni sportive le hanno inventate i Greci con i giochi di Olimpia. Ma dietro, sotto, più in alto, prima e dopo la competizione a dare senso a tutto c’era la cultura greca. Oggi dietro gli sport che cultura c’è? Il mercato è ubiquo, l’intelligenza artificiale rende stupidi e la telematica smaterializza la vita. Non è internet il primo e peggiore nemico del corpo consapevole?

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