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Il Tour de France 2016 è lo specchio della Francia, bello e spocchioso, ma piace (molto)

Giovanni Battistuzzi
Il percorso della prossima Grand Boucle partirà da Mont Saint-Michel il 2 luglio. Sarà una corsa molto scenografica, più nervosa del passato, anche se forse meno dura. Si ritorna sul Mont Ventoux, la salita più spettacolare d'oltralpe nel giorno della festa nazionale. Basta questo per farla amare ai francesi.

Scenografico. Perché partire da Mont Saint–Michel, sotto le guglie del santuario dedicato a San Michele Arcangelo e lasciarsi alle spalle l'isolotto roccioso sul canale della Manica pedalando su di una lingua d'asfalto che scompare a seconda della marea sino a raggiunger Utah beach, il luogo dello sbarco in Normandia, non può essere altro: scenografia. Tra le migliori al mondo. Così inizierà il 2 luglio del prossimo anno il Tour de France, 188 chilometri aspettando lo sprint finale e sperando che il vento non faccia più danni della strada.

 

Scenografico. Perché arrivare in cima al Mont Ventoux, il gigante calvo della Provenza, la salita più spettacolare almeno per ambientazione di Francia, il giorno della festa nazionale francese, non può essere altro che questo. Uno spettacolo annunciato, aspettando magari il colpo a effetto di un pedalatore di casa, uno di quella nouvelle vague di cui tanto si parla oltralpe e che prima o poi dovrebbe ricolorare di blu bianco e rosso la casella del vincitore, terra di conquista straniera dal 1985, ultimo successo di casa, ultimo grande giro a firma Bernard Hinault.

 

Scenografico. Perché ritorna sul luogo del delitto, figurato si intende, quello del Mondiale più duro (forse) della storia del ciclismo. Sallanches. Côte de Domancy, basta il nome, basta questo a evocare ancora lo stesso Hinault che qui nel 1980 batté tutti e rese mitici questi due chilometri e mezzo di strada che si inerpicano sino a superare il 14 per cento di pendenza. Ci si arrampica non si scala, sherpa non atleti, a cronometro, questa volta, scenario buono per vedere nella faccia degli atleti quanto può essere infame la salita.

 

 

Scenografico, certo, ma anche tanta sostanza. Perché per una volta i francesi non hanno coperto con i lustrini le pecche di un territorio che non sempre è all'altezza della corsa più bella e famosa al mondo. Perché per una volta gli organizzatori hanno giocato di fantasia non adagiandosi su una storia centenaria che, per parole del secondo patron del Tour (dal 1947 al 1986) Jacques Goddet, "basta e avanza, alla faccia di percorso e corridori, per dare alla corsa quell'aurea mitica che nessun'altra corsa può vantare".

 

E' un Tour questo che sembra un Giro, che è disegnato all'italiana, pieno di trappole e percorsi infidi, dove un colpo di mano è sempre possibile, perché per colpi di mano è disegnato. E' un Tour questo che, come era successo anche nella scorsa edizione, ha pensionato la tradizione e si è modernizzato come (quasi) non mai, è andato a cercare nuovi luoghi, riscoperto vecchi amori ormai spenti e in naftalina.

 

[**Video_box_2**]E poco importa se è saltata ancora l'alternanza tra Pirenei e Alpi, queste ultime ancora inserite nel percorso nell'ultima settimana e quindi, almeno sulla carta, più decisive dell'altra catena montuosa. Poco importa se il Tourmalet, la salita per antonomasia della Francia pirenaica è a distanza siderale dal traguardo dell'ottava tappa, la Pau – Bagneres-du-Luchon, 183 chilometri. Poco importa anche se si è eclissato per questa edizione pure il pavé che sembrava essere rientrato per per rimanere fisso in percorso. E' un Tour che associa romanticismo e modernità, che ricorda e fa intravedere novità. Che sarà forse meno duro, sicuramente più umano di altri. Che lascia tempo al recupero e all'iniziativa, all'idea matta di colpi a effetto. Che è quello che conta di più. Scenografico, senz'altro, ma promosso.

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