L'allenatore Sinisa Mihajlovic (foto LaPresse)

Dopo la giustizia dell'uomo con il mozzicone, a Sinisa resta solo la misericordia

Gianni Giacomelli
La frase peggiore del campionato migliore al mondo è: meritavamo noi. Le disquisizioni postume sul merito andrebbero bandite, a fine partita tutti dovrebbero andarsi a stappare una bottiglia di chianti per festeggiare o dimenticare, senza aggiungere altro.

Bologna. La frase peggiore del campionato migliore al mondo è: meritavamo noi. E’ particolarmente fastidiosa quando a dirla è Roberto Mancini dopo una partita in cui la Sampdoria ha pure sbagliato il gol più facile dai tempi in cui la vittoria valeva due punti, la stessa partita che secondo un Ferrero meno iperbolico del solito doveva finire 11 a 1. Meritavamo noi è una petizione di principio, un’aporia nella logica del calcio, è una moralizzazione a posteriori che si può pronunciare fra sé, a bordo piscina o al bar, oppure nello spogliatoio ai propri giocatori, non davanti alle telecamere, dove il merito non è che il premio di consolazione dei lamentosi. E sai che consolazione: non c’è modo peggiore per essere sconfitti.

 

Le disquisizioni postume sul merito andrebbero bandite, a fine partita tutti dovrebbero andarsi a stappare una bottiglia di chianti per festeggiare o dimenticare, senza aggiungere altro. Se si può dire “meritavamo noi” significa che vale tutto, anche l’istituzione del fantacalcio per giornalisti e l’attacco alla conduttrice che sceglie per l’allenatore le domande più stupide fra quelle proposte dal web. Beato, si fa per dire, chi come Sinisa Mihajlovic proprio alla litania del “meritavamo noi” non può appellarsi, e gli tocca portarsi a casa il Tapiro d’Oro, l’unico vero riconoscimento nazionalpopolare da quando il Telegatto è morto, e fare un mea maxima culpa senza appelli. Il campo, nel caso specifico, parla chiaro: quattro a zero in casa dal Napoli di Sarri, una squadra guidata dal teorico del calcio pane e salame, un punto di riferimento dell’estetica della terza categoria catapultato in serie A, un allenatore bastonato dalle regole politicamente corrette sul fumo a bordo campo che non si consola con una sigaretta elettronica, roba chic, ma con il mozzicone di una sigaretta vera e veramente fumata (spero negli spogliatoi, in faccia ai giocatori), che fa pendant con la tuta.

 

Mihajlovic non dice “meritavamo noi” – come potrebbe? – ma “è colpa mia”, e mourinhanamente proclama: “Non mi dimetto”, tutte cose non soltanto responsabili ma filosoficamente ineccepibili, sulle quali non si può costruire un viscido conteggio morale sulla posizione che la squadra occuperebbe se soltanto avesse incassato quello che ha meritato.

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