Fabio Aru (foto LaPresse)

Modolo vince in casa mentre le cadute regalano la maglia rosa ad Aru. Al Giro rubate le bici di Gilbert

Maurizio Milani
A tre chilometri e mezzo dall'arrivo Alfaci va a terra e il gruppo si spezza, la classifica stravolta. Il sardo è il più lesto a partire e guadagna mezzo minuto ad Alberto Contador. Porte perde un altro minuto. In volata vince il coneglianese della Lampre.

La tappa: Montecchio Maggiore-Lido di Jesolo, 153 km - In una tappa piatta e senza difficoltà doveva essere sprint e sprint è stato. Sul lungo rettilineo del Lido di Jesolo è Sacha Modolo il più lesto, un assolo potente, conseguenza di un lavoro di squadra perfetto da parte della squadra. Secondo Giacomo Nizzolo, terzo Elia Viviani a completamento di una terzina tutta italiana e per due terzi veneta, di casa.

 

In una tappa piatta e senza difficoltà non doveva succedere niente, invece è successo di tutto. A 3.500 metri dall'arrivo una caduta spezza il gruppo. Davanti i velocisti, dietro tutti gli altri. Sparpagliati. Il più lesto a uscire dal groviglio di bici è Fabio Aru. Alle sue spalle ripartono alla spicciolata, Porte rompe la bici, ne prende una di un compagno qualsiasi, troppo alta per lui, lascia sulla strada un altro minuto. Tra i due Alberto Contador, che di secondi ne lascia 30 sull'afalto, che perde la maglia rosa. Il simbolo del primato va al sardo dell'Astana, senza accorgersene, inconsapevole.

 

L’altro Giro di Maurizio Milani


 

Ieri dato che pioveva molto intanto che c’era la tappa sono andato a dormire nel motorhome di Philippe Gilbert. Sapevo che avrebbe vinto e non ci sarebbe tornato tardi. Ho fatto la doccia e tutto. Prima di andarmene ho ciurlato anche due biciclette. Quelle con il cambio wi-fi (costo per ogni bici 10.000 euro circa). Sono andato a venderle a Milano a un mercatino per 200 euro l’una. Non è giusto guadagnare troppi soldi dalla merce rubata. Volevo telefonare a Gilbert per chiedergli 1.500 euro di riscatto, ma ho paura di avere il telefono sotto controllo. Infatti è così me lo ha detto Angelino Alfano. Il mio ricettatore ha fatto così ed è arrestato. Oggi ho pensato che mentre i corridori vanno a dormire andrò nel motorhome di Contador. Anche perché sono sicuro che il Giro lo vincerà lo spagnolo a meno che qualche pirla non si comporto come alla maratona di Atene alle Olimpiadi. Era in testa un portoghese, uno del pubblico è uscito dal bordo della strada e l’ha abbracciato urlando: “Voglio parlarti dei miei problemi! Non lavoro, non ho la pensione”. Lo teneva bloccato, così il nostro marciatore Baldini, che era secondo, lo raggiunse, lo superò e così vinse la medaglia d’oro. Speriamo non succeda questo, anche perché io tifo per Ivan Basso e il Giro ha deciso di non vincerlo.


 

 

Amarcord – Diceva un vecchio saggio della bicicletta quale è stato l’Avocat Eberaldo Pavesi che nello sport, soprattutto nel ciclismo, ma anche nella vita tutta, a contare sono essenzialmente tre caratteristiche: stazza, razza e tazza. La stazza è il fisico, quello che uno si ritrova, i propri punti di forza, le capacità innate; la razza è la volontà di tirarle fuori, di andare a tutta, a volte oltre; la tazza è la fortuna, quella di trovare il giusto momento per riempirla. Se la prima ce la devi avere, la seconda sta a te trovarla, la terza invece capita e non puoi farci niente: “Dipende dai momenti, dai cicli dei tempi ed è quella che se ci sono le prime due, ti fa entrare nella storia”, questo per tutti, ad eccezione di chi delle prime due è dotato in maniera troppo superiore agli altri. E quando corri con un tipo come Eddy Merckx, delle prime due, per cavare qualcosa, ne servono a quantità industriali. Perché con te corre il Cannibale e basta il nome per capire tutto.

 

Gareggiare a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta non è stato facile per nessuno, figurarsi per chi della prima dote ne aveva in quantità, ma della seconda ne godeva a ondate, senza continuità, a seconda dell’umore. Figurarsi per un cavallo di razza che fischiettava e scherzava, che lo sport lo prendeva un po’ così, ridendo. Dino Zandegù è stato questo, ciclista eccezionale, sorriso in bocca, di battute e scherzi, perché, fatica a parte, la bici è meglio che farsi il mazzo da qualsiasi altra parte. Dino è di Rubano, provincia di Padova, fino ai diciassette anni si alza presto per lavorare dal fornaio e poi portare il pane con il biciclettone da consegne; e se capitava un gruppetto di ragazzi che si allenava, non se lo faceva dire due volte, si metteva a ruota e alla prima occasione li staccava. A fare il corridore l’hanno quasi messo a forza, perché quella dell’atleta è vita dura e per farlo salire su una bici da corsa per fare il corridore ci sono volute un po’ di insistenze: veloce com’è ci mette poco a vincere e a farlo regolarmente. Perché Zandegù è veloce davvero, ma se la cava in ogni terreno, in salita non lo stacchi, in discesa va forte e sul passo non molla un metro. Troppo poco paziente per essere sprinter, troppo poco determinato per lottare per la classifica, rimane un ibrido, capace di ogni cosa, anche di eclissarsi all’improvviso dalla corsa. Un atleta dal talento indiscusso, capace di vincere un Giro delle Fiandre battendo il Merckx più affamato di successi, quello dei primi anni, di conquistare brevi corse a tappe come la prima edizione della Tirreno-Adriatico, di superare tutti su strappi irti, come a Chianciano Terme nel Giro del 1967, di regolare i migliori velocisti del mondo come a Jesolo nel 1970. Capace soprattutto di far dire a Luciano Pezzi, suo direttore sportivo alla Salvarani, “un grande orgoglio per me è aver gioito per le 27 vittorie di Zandegù, il mio rimpianto è quello di non avergliene fatte vincere almeno il triplo”.