Re Salman con Vladimir Putin

La nuova OPEC russo-saudita è già tra noi. Ma quanto durerà?

Eugenio Dacrema

Il nuovo asse Mosca-Riyadh sta rivoluzionando il mercato petrolifero. Ma è una rivoluzione che potrebbe non durare.  

Alla fine Mosca e Riyadh l’hanno spuntata. Giovedì scorso l’ultimo cruciale incontro dell’OPEC ha sancito la decisione concordata di aumentare la produzione petrolifera globale di circa un milione di barili. Un successo non scontato, vista l’iniziale ferma opposizione dell’Iran a un aumento di produzione che di fatto andrà a sostituire le sue quote di mercato, previste in forte diminuzione in seguito alla reintroduzione delle sanzioni americane. Ma il risultato non è solo importante perché, almeno nel medio termine, eviterà nuovi shock nell’offerta globale di greggio. È importante, soprattutto, per le dinamiche tra grandi potenze che ne hanno preceduto l’approvazione. In particolare, il nuovo rapporto “speciale” tra Mosca e Riyadh con quest’ultimo successo sembra destinato a consolidarsi come il nuovo asse portante del mercato petrolifero globale. Un asse finora rimasto informale, basato soprattutto sui frequenti incontri bilaterali tra i vertici russi e sauditi e sul “feeling” che i meglio informati dicono essersi rafforzato tra i due ministri del petrolio, il russo Alexander Novak e il saudita Khalid al-Falih. Ma l’asse russo-saudita potrebbe presto uscire dall’informalità con la creazione di una nuova organizzazione che i commentatori per ora chiamano “OPEC Plus”, la quale dovrebbe essere aperta, oltre ai tradizionali membri OPEC, ad almeno altri sei produttori globali, tra i quali spicca, ovviamente, la Russia. Ma non si tratterebbe solo di una versione allargata del vecchio cartello petrolifero. Prima di tutto, indiscrezioni parlano di un sistema di voto radicalmente diverso, non più basato sul vecchio sistema “un paese, un voto”, ma caratterizzato da voti “pesati” a seconda delle quote di produzione di ciascun paese. Un sistema che lascerebbe nelle mani dei due principali esportatori globali, Arabia Saudita e Russia, i quali da soli producono più di tutti gli altri membri OPEC messi insieme, un potere relativo in grado di limitare in modo decisivo l’influenza dei piccoli produttori. In secondo luogo, la nuova organizzazione dovrebbe essere caratterizzata da una sistema di membership più flessibile rispetto al passato, e si vocifera perfino di una potenziale inclusione degli Stati Uniti. Una mossa che sancirebbe definitivamente l’entrata degli americani nel club dei massimi produttori mondiali e che suonerebbe come il definitivo fallimento dei tentativi russo-sauditi di affossare la cosiddetta “rivoluzione shale”, che da un decennio sta trasformando gli Usa da maggiore importatore globale a paese esportatore.

Una vera e propria rivoluzione del mercato petrolifero, insomma, anche se potrebbe essere presto per parlarne con assoluta certezza. Esperienze passate mettono infatti in dubbio soprattutto la capacità russa di mantenere la leadership di questo tipo di cartelli. Nel 2008, infatti, Mosca fu uno dei principali artefici del Gas Exporting Countries Forum, una organizzazione internazionale che sembrava poter diventare l’OPEC del mercato del gas. Ben presto, però, iniziò ad apparire chiaro che si sarebbe trattato più di una camera di dialogo piuttosto che decisionale, proprio per l’incapacità della Russia, che ne doveva essere il leader, di adottare un approccio strategico di lungo termine alle questioni energetiche. Mosca ha infatti sempre preferito un approccio più tattico e meno cooperativo, affidandosi ad accordi multilaterali solo in casi di gravi squilibri del mercato, come accaduto con il crollo dei prezzi dell’ultimo triennio. Allo stesso tempo, nonostante per ora il rapporto privilegiato tra Riyadh e Mosca in campo petrolifero sembri essere rimasto imperturbato dalla geopolitica regionale che li vede schierati su campi opposti, soprattutto in Siria, le cose potrebbero repentinamente cambiare in caso di un ulteriore peggioramento del conflitto siriano e il possibile coinvolgimento di altre potenze regionali come Turchia, Giordania e Israele. Insomma, la rivoluzione sembra davvero poter arrivare. Ma potrebbe durare pochissimo.  

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