Abdullah di Giordania (in prima fila, secondo da sinistra) al termine dell'incontro dell'Organisation of Islamic Cooperation (OIC) a Istanbul (foto LaPresse)

La Giordania intrappolata tra principi ed economia

La mossa di Trump su Gerusalemme pone la monarchia hascemita di fronte a un bivio molto pericoloso

Eugenio Dacrema

I sauditi l’hanno fatto ancora. Stavolta a essere “trattenuto” più a lungo del desiderato in territorio saudita non è stato il premier di un altro stato arabo com’era accaduto poche settimane fa col primo ministro libanese Saad Hariri. Ma quasi. A essere arrestato e trattenuto, stavolta in un vero carcere saudita (e non in un lussuoso hotel come Hariri), è infatti stato il magnate giordano-palestinese Sabih al-Masri, uno dei più importanti uomini d’affari giordani e fratello di Munib Al-Masri, l’uomo più ricco dei Territori Palestinesi. Un arresto durato pochi giorni, la cui importanza è stata sminuita nei commenti dello stesso Al-Masri il quale, detenendo cospicui affari nel regno saudita, ha probabilmente voluto tenere bassi i toni riguardo al suo arresto. Il messaggio, infatti, non era diretto a lui, diventatone messaggero a suo discapito, ma a un capo di stato da qualche tempo considerato troppo indipendente, se non addirittura ribelle, rispetto ai piani e ai diktat sauditi: Re Abdullah II di Giordania. Le ragioni sono presto dette: Abdullah ha dimostrato in tutti i modi di non aver gradito e di non voler appoggiare la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello stato israeliano. Una decisione formalmente condannata anche dall’Arabia Saudita, ma appoggiata da Riyadh in modo sempre più “informalmente evidente”, e che farebbe parte di un piano ideato nientemeno che dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e dal genero del presidente degli Stati Uniti Jared Kushner. Abdullah, in particolare, ha rifiutato i perentori inviti di Riyadh a non partecipare al summit straordinario dell’Organizzazione di Cooperazione Islamica (OCI) convocata a Istanbul dal presidente turco Erdogan, a cui i sauditi hanno eloquentemente aderito solo simbolicamente, mandando rappresentanti di scarsa importanza. Al contrario, dopo essere stato convocato all’improvviso a Riyadh proprio in concomitanza con l’assemblea della OCI, Abdullah ha rifiutato di fermarsi nella capitale saudita per volare a Istanbul dove è stato ripreso ad annuire energeticamente durante il forte discorso di condanna alla decisione di Trump pronunciato da Erdogan e dove ha insistito per farsi fotografare in prima fila al fianco del presidente turco nelle foto di rito. Non solo, il governo giordano ha avvallato e incoraggiato le molte manifestazioni che si sono tenute in queste settimane ad Amman e nei Territori Palestinesi contro la decisione di Trump. Troppo per i sauditi, che sul piano promosso dall’amministrazione Trump e sulla alleanza “informale” con Israele in chiave anti-iraniana stanno contando molto.

L’arresto di Al-Masri è un chiaro messaggio per Abdullah: i sauditi sono pronti a colpire laddove fa più male per piccolo regno giordano: l’economia. Nei giorni seguenti l’arresto, infatti, Arab Bank, la banca di cui Al-Masry è chairman è infatti crollata in borsa. L’istituto è tra le più importanti banche commerciali in Giordania e nei Territori Palestinesi e ospita i depositi di gran parte della classe media del paese. Zara Holding, la più grande compagnia fondata da Al-Masry, detiene inoltre le infrastrutture turistiche più importanti del regno. Colpire Al Masry, insomma, significa minacciare i settori finanziario e turistico, le colonne più importanti della fragile economia giordana. La Giordania infatti è da sempre una economia caratterizzata da un profondo deficit di partita corrente che ogni anno necessità di ingenti investimenti stranieri per essere compensato. Investimenti che arrivano normalmente dal turismo, ma soprattutto sotto forma di sostegno finanziario da paesi amici come gli Stati Uniti o le monarchie del Golfo, le quali sono anche i paesi di origine di gran parte degli investitori privati che fanno affari nel regno. Insomma, dispiacere Riyadh può essere letteralmente un pessimo affare per il re giordano, che appare oggi sempre più intrappolato in una morsa: da una parte il rischio di una grave perdita di legittimità di fronte ai suoi sudditi, per oltre il 60 percento di origine palestinese, che mai accetterebbero l’appoggio ufficiale della monarchia giordana al riconoscimento della mossa di Trump su Gerusalemme (dei cui luoghi sacri islamici il re giordano sarebbe anche il custode ufficiale secondo il trattato di pace del 1994). Mentre, dall’altra, le potenziali rappresaglie saudite potrebbero seriamente danneggiare l’economia giordana, risultando in un altrettanto grave danno di popolarità per la monarchia, i cui sudditi subiscono ormai da anni i gravi effetti della crisi economica causata dal conflitto siriano e dall’instabilità nella regione. Qualunque scelta faccia, insomma, la Giordania rischia quindi di diventare il perdente principale dell’ultima diatriba su Gerusalemme. Con effetti potenzialmente imprevedibili.

Di più su questi argomenti: