Arabia Saudita: Le riforme nel pantano reale

Eugenio Dacrema

Shale gas americano, malcontento interno e intrighi di palazzo mettono a rischio l'ambizioso piano di riforme economiche del regno. Una "Visione" 2030 che forse era destinata a rimanere tale fin dall'inizio. 

Anche se non raggiunge spesso le prime pagine dei giornali, da circa due anni il più grande esportatore di greggio al mondo sta affrontando un processo di delicata transizione. Un processo che oggi appare sempre più a rischio.

Tutto è iniziato circa due anni e mezzo fa, quando con una improvvisa impennata della produzione nazionale (arrivata a picchi di 12 milioni di barili al giorno), Riyadh causò il crollo dei prezzi petroliferi fino a quel momento stabilmente oltre i 100 dollari al barile. Il repentino ed energico cambio di politica aveva tre obiettivi principali: primo, mandare fuori mercato l’industria americana dello shale gas insieme con tutti gli altri nuovi produttori extra-Opec che grazie agli alti prezzi del greggio si stavano ritagliando fette di mercato sempre più grandi ma che con i prezzi dimezzati non avrebbero potuto sostenere le proprie produzioni. Secondo, colpire i principali rivali geopolitici , anch’essi grandi produttori, a cominciare dall’Iran. Teheran infatti dopo la chiusura dell’accordo sul nucleare sembrava apprestarsi a ritornare prepotentemente sul mercato a prezzi concorrenziali. Ma oltre all’Iran c’era anche la Russia, una economia estremamente dipendentemente dalle esportazioni energetiche che dopo l’intervento in Siria si era posta in collisione con la politica estera di Riyadh. Ovviamente tale politica aggressiva di acquisizione di quote di mercato avrebbe avuto anche le sue “vittime collaterali”, inclusi alcuni membri dell’Opec diventati strutturalmente dipendenti dagli alti prezzi del greggio (in questo periodo a molti cospirazionisti piace dare la colpa della crisi del Venezuela di Maduro a qualche complotto americano vetero-imperialista. Ma al netto delle deficienze personali e strutturali di Maduro e del suo regime, per trovare responsabilità esterne sarebbe più utile che bussassero alla porta degli al-Saud piuttosto che a quella di Trump). Infine, il terzo obiettivo era quello di creare le condizioni per delle riforme strutturali in grado di diversificare finalmente l’economia saudita, ridurre il ruolo dello stato e stimolare l’iniziativa privata.

Il fulcro di tali riforme è stato presentato ad aprile 2016 da Mohammed bin Salman (anche conosciuto dagli osservatori internazionali come MbS), il “vice-erede al trono” e figlio prediletto dell’attuale monarca Salman bin Abdulaziz al-Saud. “Vision 2030”, il nome con cui l’ambizioso pacchetto è stato presentato al pubblico, prevedeva stimoli all’imprenditoria, la vendita del 5% di della compagnia petrolifera nazionale Aramco (la più grande compagnia petrolifera del mondo), la creazione di un fondo di investimenti in grado di generare un flusso di rendite alternativo a quelle petrolifere e la completa indipendenza dal settore energetico entro il 2030. Un pacchetto coraggioso e completo, mirante a portare a termine obiettivi di cui nel regno si parlava almeno da tre decadi. Unico problema? Per dirla con le parole di Nick Butler, si trattava di un piano completamente irrealistico. All’epoca l’analista del Financial Times era una voce fuori dal coro, ma appena un anno dopo gli sviluppi sembrano dargli ragione.

Il primo problema è che lo shale gas americano è tutt’altro che morto. Dopo una parziale contrazione del 2016, quest’anno appare in grado perfino di aumentare la produzione, rendendo sempre più difficile una ripresa significativa dei prezzi. La semplice politica di aumenti spot della produzione non è infatti bastata; senza un intervento deciso sul mercato dei future da parte saudita lo shale americano ha comunque potuto contare su stabili linee di credito per affrontare il periodo di bassi prezzi. E mentre l’economia saudita ha sofferto deficit da 100 miliardi di dollari difficilmente sostenibili nel lungo periodo i suoi principali rivali non sembrano affatto eliminabili nel breve.

Ma i nodi veri sono tutti interni, nella crisi del budget e nelle difficoltà di riformare profondamente il settore pubblico e in generale il mercato duale del lavoro che vede oltre due terzi dei cittadini sauditi impiegati dallo stato e il settore privato sottodimensionato e quasi completamente occupato da manodopera straniera. La sfida dall’apparenza insormontabile è quindi stata fin dall’inizio l’implicito cambiamento del contratto sociale che il pacchetto di riforme implicava: convincere milioni di giovani sauditi che non avrebbero più dovuto cercare lavoro come i loro genitori nel settore pubblico – in impieghi tanto generosamente remunerati quanto poco impegnativi – ma che avrebbero dovuto sviluppare in pochi anni una cultura imprenditoriale per dare vita a un settore privato autoctono quasi completamente inesistente. Un cambiamento copernicano senza alcuna riforma al livello di rappresentanza politica e che sarebbe stato accompagnato da significativi tagli alla generosa politica dei sussidi (la sola spesa per i sussidi energetici equivale a quasi il 10% del Pil) e degli stipendi pubblici. Sorprendentemente, la cosa non sembra essere stata particolarmente gradita dal pubblico saudita.  Lentamente il malcontento è riuscito a emergere nonostante il capillare stato di polizia e ad arrivare alle orecchie della famiglia reale. Ed è proprio all’interno dell’immenso clan degli al-Saud che si gioca oggi la partita più delicata per MbS e suo padre. Fin dall’incoronazione di Salman è infatti apparso chiaro che gli obiettivi del nuovo sovrano e dell’ambizioso rampollo non si sarebbero fermati alla riforma strutturale dell’economia (e della società) del regno ma anche del sistema di passaggio del potere all’interno della stessa famiglia reale. Fin dalla morte del fondatore Abdulaziz al-Saud, infatti, la corona è passata ai suoi figli, da fratello a fratello, attraverso un processo di selezione basato sull’anzianità ma anche su alleanze e opachi equilibri di palazzo. Ma Salman ha fatto capire da subito di voler cambiare questo sistema e di voler passare per la prima volta la corona a un membro della nuova generazione: suo figlio Mohammed, appunto. Non potendolo nominare erede al trono apertamente ha scelto come erede designato il fratello Mohammed bin Nayef affiancandogli il figlio come “vice-erede”. Ha poi sistematicamente svuotato i poteri di bin Nayef accentrando sul figlio il controllo dei sistemi di sicurezza, dell’esercito e dell’economia. Sorprendentemente, come l’austerity economica è stata poco gradita alla cittadinanza, questo colpo palazzo “in slow motion” non sembra essere stato particolarmente gradito a buona parte della famiglia reale. Il primo a non gradire sembra essere stato il potente erede al trono bin Nayef il quale potrebbe approfittare del crescente malcontento di alcuni settori della società per indebolire la posizione di Mohammed bin Salman in vista della successione al trono. Ed è proprio l’indebolita posizione di MbS, unita al deterioramento della salute del padre, che spiegherebbe l’improvvisa marcia indietro sull’austerità che a fine aprile ha portato all’annullamento dei pesanti tagli a stipendi, bonus e privilegi per migliaia di impiegati pubblici che erano stati annunciati a inizio anno. Un annullamento che riporta 13 miliardi di dollari di spese correnti nel budget statale e che di fatto segna la prima frenata significativa del programma riforme. Una frenata che potrebbe essere seguita da altre, soprattutto se il malcontento e le critiche per la vendita pianificata del 5% di Aramco dovessero intensificarsi e in vista dell’introduzione – per la prima volta nella storia del regno – di una tassa sui consumi (VAT) a partire dal 2018.

Per recuperare consenso tra la famiglia reale e il potente apparato statale MbS sembra infatti orientato ad abbandonare almeno momentaneamente l’impervio sentiero delle riforme per un ritorno al “business as usual”. L’accordo con i russi annunciato il 15 maggio per prolungare fino a fine anno il taglio alla produzione e incoraggiare il rialzo dei prezzi va in questa direzione, segnando la resa parziale sul fronte della guerra allo shale gas. L’acquisto annunciato (e che potrebbe essere confermato dopo la visita di Trump a Riyadh il 19 maggio) di altri 100 miliardi di dollari in armamenti americani (dopo i 300 acquistati nell’ultimo anno dell’amministrazione Obama) rompe un altro tabù del programma di riforme che prevedeva la sospensione di nuove grandi spese militari. Ma se il ritorno almeno parziale al “business as usual” può servire a calmare il pubblico saudita e a rintuzzare i competitor interni alla casa reale, dall’altra parte può trasformarsi in un pantano per un paese non più strutturalmente in grado di reggere l’urto di una popolazione più che raddoppiata in poche decadi con crescenti aspettative in termini di welfare e di un mercato energetico in rapida trasformazione. Un mercato in cui l’egemonia saudita si sta trasformando, lentamente, in un lontano ricordo.

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