Il premier Giuseppe Conte a Bruxelles (foto LaPresse)

In fondo alla classifica, senza se e senza ma

Lorenzo Borga

Crescita: l’Italia ultima in Europa nel 2018 e probabilmente lo sarà anche nel 2019 (ma non è sempre andata così). Occupazione: in aumento, ma sempre meno della media nell’Eurozona. Investimenti pubblici in calo

Italia fanalino di coda. Ormai è diventata una certezza nelle statistiche europee sulla crescita dell’economia: il nostro paese è quasi sempre all’ultimo posto nella classifica Ue delle previsioni del pil. Oltre a essere una certezza, è un dato che si è rivelato ben presto un alibi per governi incapaci di trovare la via per la crescita del nostro paese. Quando regolarmente negli ultimi anni i dati sono stati negativi per il nostro paese si è spesso risposto a stretto giro: “L’Italia è sempre stata ultima per la crescita del pil, non dipende certo da questo governo”. Eppure c’è ultimo e ultimo: la 28esima posizione non ci dice nulla sul gap rispetto al resto dell’Europa, mentre i dati forniti più volte all’anno dalla Commissione europea nelle sue previsioni ci consentono di misurare la distanza tra il nostro paese e la media europea. E c’è di più: le pubblicazioni statistiche di Bruxelles forniscono dati e classifiche anche su altri aspetti fondamentali, come la crescita dell’occupazione e l’andamento degli investimenti pubblici. C’è molta carne al fuoco: si tratta di informazioni preziose per verificare alcune convinzioni ben radicate nel nostro paese.

 

Il gap della crescita

L’Italia ha un preoccupante problema con la crescita. Negli ultimi tre decenni il reddito italiano è cresciuto meno dell’1 per cento all’anno, un dato striminzito. E, come viene sempre ripetuto, è ultima tra i paesi europei nel 2018 e probabilmente lo sarà anche nel 2019 secondo le previsioni autunnali della Commissione europea. Fino al 2017 potevamo almeno contare sull’inefficienza dell’economia greca – eterna ultima per anni – ma dall’anno scorso anche Atene ci ha superati: quest’anno dovrebbe crescere quasi due punti percentuali in più rispetto all’Italia.

Non è andata sempre così. Secondo i dati della Banca Mondiale, fino al 1994 il nostro paese ha spesso ottenuto tassi di crescita del pil più alti della media europea. Negli anni ’60 e ’70 il nostro reddito reale distanziava la media europea anche di due punti percentuali all’anno. E quindi negli ultimi decenni cosa è successo? La produttività italiana si è fermata e la crisi economica del 2010-2011 ha colpito molto più durante il nostro paese rispetto al resto d’Europa (più di due punti di differenza, questa volta a nostro sfavore). Così siamo stati superati.

 

Eppure c’è ultimo e ultimo, dicevamo. Dal 2000 il divario con la media europea è peggiorato fino a quasi perdere due punti di pil all’anno rispetto all’Unione Europea, fino al 2007 quando abbiamo cominciato a risalire (complice la prima botta della crisi economica che aveva ridotto il margine). Nel 2010 avevamo quasi chiuso il gap economico, quando è successo quello che non doveva accadere: il nostro paese ha perso la fiducia dei mercati, il debito pubblico non risultava più sostenibile e la speculazione finanziaria ha scommesso sul nostro fallimento. Ed eccoci tornati a sprofondare a quasi due punti e mezzo di gap di crescita nel 2012.

 

 

Da allora è accaduto un fatto interessante, e poco conosciuto dall’opinione pubblica. Il gap col resto d’Europa ha iniziato a chiudersi, non del tutto ma progressivamente. Tra il 2012 e il 2017 avevamo recuperato i due terzi del divario, ma – ancora una volta – proprio sul più bello si è incrinato qualcosa. L’anno scorso e in quello in corso l’Europa tutta ha frenato, per le ragioni che conosciamo – guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, l’incertezza della Brexit, la bassa inflazione – ma l’Italia ha rallentato molto di più. E la distanza, quindi, è tornata ad aumentare. Proprio quando a governare era il primo esecutivo guidato da Giuseppe Conte, che incolpava i predecessori di aver causato un disastro economico e prometteva un futuro economico roseo. E questa è la prima narrazione che i dati smentiscono.

 

E nei prossimi anni cosa ci attende? Ecco una sorpresa, questa almeno positiva: secondo le stime della Commissione europea il gap tra la crescita del pil italiano e quello europeo dovrebbe tornare a chiudersi. Non tanto per un andamento particolarmente positivo dell’economia italiana – che al massimo dovrebbe raggiungere il +0,7 per cento nel 2021 – ma a causa del rallentamento europeo che dovrebbe mantenere l’Europa a un tasso di crescita stabile dell’1,4 per cento nel corso dei prossimi tre anni.

 

Il gap del lavoro

Le statistiche del mercato del lavoro siamo abituati a leggerle sull’Italia (anche troppo di frequente) e molto meno a confrontarle a livello europeo. Eppure una lettura dei dati della Commissione europea può essere estremamente interessante. In particolare per misurare la crescita dell’occupazione in Italia – di cui si vantano un po’ tutti, da Renzi negli anni 2015-2016, a Di Maio per il 2018 – rapportandola a quanto successo negli altri paesi europei. Si scopre così che se il numero di lavoratori in Italia è cresciuto negli ultimi cinque anni dello 0,9 per cento in media, la media europea e della zona Euro nello stesso periodo è stata dell’1,3 per cento. La crescita di posti di lavoro c’è stata, ma inferiore a quanto successo in Europa, benché noi partissimo da un livello occupazionale molto più basso (58,5 per cento italiano vs 68,5 dell’Europa a 28) e dunque avessimo più margini per recuperare. Anche negli anni di maggiore crescita grazie alle decontribuzioni legate al Jobs act, 2015 e 2016, le percentuali di crescita sono state pari o inferiori alla media europea.

 

Il gap degli investimenti pubblici

E ancora: i numeri della Commissione permettono di capire qualcosa di più anche a proposito degli investimenti pubblici, di cui negli ultimi tempi tutti i governi hanno descritto l’urgente necessità e preparato piani miliardari pluriennali. Gli ultimi tre esecutivi hanno infatti presentato le proprie leggi di bilancio sostenendo che rappresentassero “il più grande piano di investimenti” mai progettato in Italia, dimenticandosi però che gran parte dei fondi a disposizione provenivano  – appunto – dai piani degli esecutivi precedenti, a cui ognuno ha aggiunto qualche manciata di miliardi.

 

E dunque, dopo proclami come questi, non possiamo che essere i primi in Europa almeno per gli investimenti pubblici, o no? No, siamo quartultimi, prima di Spagna, Irlanda e Portogallo. Il nostro paese negli ultimi cinque anni ha investito in media circa il 2,2 per cento del proprio pil in investimenti pubblici (poco meno di 40 miliardi), cioè finanziati dallo stato o dagli enti locali. Ma ciò che è ancora più preoccupante è il trend di questi numeri: il nostro paese – nonostante la notevole flessibilità europea concessa proprio per questa voce del bilancio – ha ridotto gli investimenti pubblici in rapporto al reddito totale dal 2015 in poi, fino a toccare il 2,1 per cento l’anno scorso.

Nel 2019 è previsto un leggero aumento al 2,2, ma si tratta ancora di una previsione. Percentuali molto distanti anche dal passato, quando in media gli enti pubblici italiani investivano quasi 3 punti e mezzo di pil tra il 2005 e il 2009. Inutile scrivere che la media europea è ovviamente superiore alla nostra e che Regno Unito, Francia e Germania fanno tutti meglio di noi. Ecco, qualche parola va dedicata ai tedeschi che – nonostante rappresentino la cosiddetta locomotiva economica europea – hanno lesinato sugli investimenti pubblici e si trovano quasi ai livelli italiani. C’è da dire però che il trend è l’esatto opposto: gli investimenti tedeschi sono in crescita costante, proprio in risposta alle critiche europee sull’elevato surplus commerciale di cui avevamo già scritto su SoundCheck.

 

Le tre narrazioni false

I semplici numeri della Commissione, se messi in fila uno dopo l’altro, dimostrano la fallacia che spesso caratterizza il dibattito pubblico italiano sul confronto tra l’economia italiana e quella europea. Primo, non è una scusa ragionevole giustificare gli scarsi risultati economici recenti affermando che comunque l’Italia è sempre stata ultima. Non siamo sempre stati in fondo alla classifica, e – anche fosse – c’è ultimo e ultimo: negli ultimi due anni il divario si è nuovamente allargato.

Secondo, la crescita occupazionale italiana che in effetti negli ultimi anni ha accelerato perde gran parte del lustro se la osserviamo nel contesto europeo. In Europa siamo tra i paesi con il più basso numero di persone che lavorano in età adulta e anche la crescita occupazionale è una delle più modeste.

Terzo, gli investimenti pubblici in Italia si stanno riducendo al lumicino. Nella speranza che i grandi piani di investimenti annunciati da ogni esecutivo si concretizzino, oggi lo stato e gli enti locali stanno nei fatti riducendo il proprio impegno. Nonostante tutto il deficit richiesto alla Commissione europea proprio per la clausola sugli investimenti.

I numeri europei parlano chiaro.

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