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La generazione Erasmus che non c’è

Lorenzo Borga e Lorenzo Ferrari

Una bella definizione, ma i numeri dicono che i giovani che partecipano al programma di studi sono meno del 2 per cento. E gli italiani, più europeisti dei loro genitori, per metà non sono mai stati in un altro paese europeo

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Generazione Erasmus. Quante volte abbiamo letto o ascoltato questa espressione? Ad alcuni, come tanti lettori de Il Foglio, riempie di speranza, rappresenta la generazione più europeista di sempre che sfrutta le libertà offerte dall’Unione Europea e dalla concorrenza, le apprezza, viaggia, parla inglese. Per altri rappresenta invece una generazione affetta da “cosmopolitismo del desiderio illimitato”, “costretta e favorevole alla mobilità nelle forme alienate dell’industria del divertimento, dello sballo trasgressivo violante ogni inviolabile e della movida notturna”. Lo ha scritto Diego Fusaro, qualunque cosa intendesse dire.

 

Ad ogni modo, nel volgo comune la generazione Erasmus esiste e ha un significato ben preciso. E ha anche una valenza politica, usata in particolare da esponenti progressisti e europeisti per dimostrare che il progetto europeo ha un futuro e tende verso un progresso ineluttabile, apprezzato dalle nuove generazioni. Ne sa qualcosa Sandro Gozi, ex sottosegretario con delega agli affari europei nei governi Pd, che ci ha scritto un libro: “Generazione Erasmus al potere” (Egea). Anche Matteo Renzi aveva usato il termine, in occasione della prima fiducia ottenuta dal Parlamento nel 2014, così come il suo predecessore Enrico Letta. Tutti a incensare quella cosiddetta generazione che prende il nome dal progetto di scambio di universitari europei, partito nel 1987 e intitolato al filosofo Erasmo da Rotterdam per via dei viaggi che compì in tutta Europa.

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Ma esiste davvero la generazione Erasmus, o è una narrazione falsata? Il termine è già di per sé impegnativo: secondo la Treccani è generazione l’insieme di uomini e donne nati più o meno ogni 25 anni. La demografia ha scandito gli ultimi decenni: baby boomers, generazione X, Millennials, generazione Z. In ognuna si contano milioni di persone: la prima, che raccoglie i nati dopo la II Guerra Mondiale fino al 1965, conta più di 15 milioni e mezzo di individui solo in Italia. Questo è il primo insegnamento: per fare una generazione ci vogliono tante persone, tantissime. E servono caratteristiche in comune, che – nell’utilizzo metaforico del termine – sarebbero ad esempio i frequenti viaggi in Unione Europea, la cittadinanza, fiducia e appartenenza al progetto comunitario, l’adesione al programma Erasmus.

 


Fonti: Eurostat, Commissione europea, Istat (2016)

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Giovani europeisti?

In effetti a leggere i dati sulla fiducia e l’appartenenza alle istituzioni e al sentimento europeo verrebbe da pensare che siamo di fronte a una generazione genuinamente europeista. Un sondaggio di Eurobarometro della primavera dello scorso anno mostra infatti che il 52 per cento di chi ha tra i 15 e i 24 anni tende a fidarsi dell’Unione Europea, un dato che scende leggermente al 46 per cento per chi ha tra i 25 e i 34 anni. Si tratta di percentuali più alte di diversi punti rispetto alle classi anagrafiche più anziane. Allo stesso tempo però per il 63 per cento di loro “i nuovi partiti e movimenti politici possono trovare soluzioni migliori” rispetto ai partiti esistenti: i giovani dunque si mostrano aperti al cambiamento, come storicamente dimostrato, ma anche alle scelte di voto populiste ed estremiste. Un chiaro esempio ne è l’Italia, dove i giovani elettori si mostrano decisamente interessati a proposte politiche anti-europeiste. Secondo i dati di YouTrend i partiti “antisistema” hanno ottenuto alle elezioni di marzo 2018 più del 60 per cento del voto giovanile: circa il 40 per cento il Movimento 5 Stelle e più del 20 la Lega di Salvini. Per di più secondo una ricerca del Pew Research Center condotta nel 2017 i giovani sono più scettici rispetto agli anziani sui benefici economici dell’Unione Europea in Italia, ma anche in Spagna e nella ricca Germania.

 

Ti senti cittadino europeo? A questa domanda, secondo Eurobarometro, in tanti rispondono sì (somma tra i più convinti e i moderati): in media il 70 per cento, ma tra i più giovani il dato è più alto di 5 punti. Pure sul libero movimento dei cittadini europei i più giovani si mostrano aperti, anche se con percentuali minori (quattro punti in più rispetto alla media). Non a caso, se gli si chiede cosa significa per loro l’Europa, più della metà dei giovani risponde innanzitutto libertà di viaggiare.

 

La generazione Erasmus non va in Erasmus

Il primo modo per cogliere i frutti di questa libertà, per una generazione definita “Erasmus”, dovrebbero essere proprio gli scambi di studio tra universitari. Il programma della Commissione Europea nel 2014 è stato potenziato, cambiando nome in Erasmus+ e accorpando diverse esperienze di scambio in precedenza separate. Il finanziamento è ingente: la Commissione arriverà a spendere tra il 2014 e il 2020 quasi 15 miliardi di euro, più dell’1 per cento dell’intero bilancio europeo. I finanziamenti sono principalmente volti a erogare borse di studio per i partecipanti, attorno ai 250 euro al mese per l’intero periodo di scambio. Nel 2017 il programma ha compiuto il trentesimo compleanno, per il quale è stato celebrato il “record di partecipanti”. I numeri li fornisce al Foglio l’Indire, l’agenzia governativa per la ricerca e l’innovazione educativa: sono 5 milioni gli scambi di studenti universitari europei partiti con una borsa Erasmus dal 1987, mentre raggiungono i 9 milioni i cittadini europei che hanno beneficiato in qualche modo del programma (tra docenti, dirigenti scolastici, volontari, educatori). Sembrano numeri significativi, ma purtroppo non lo sono. Se calcolati sul totale dei possibili partecipanti tra tutti i paesi aderenti, cioè chi ha un’età compresa tra i 19 e i 26 anni circa, gli studenti che hanno partecipato all’Erasmus non sono che un’esigua percentuale. Fatto un conto approssimativo, si tratta di meno del 2 per cento dei possibili partecipanti dal 1987 ad oggi. Decisamente troppo poco per definirla una generazione. Negli ultimi anni le cose vanno un po’ meglio: dal 2004 al 2016 il numero dei partecipanti è cresciuto di molto, ma la percentuale è comunque rimasta minore ai due punti per via dei sempre più numerosi paesi partecipanti. L’Erasmus rimane ancora estraneo alla maggior parte dei giovani europei, fra cui solo un terzo frequenta l’università secondo Eurostat. Ma anche tra chi studia sono pochi i partecipanti al programma, per mancanza di interesse o di possibilità economiche.

 

Frontiere aperte, ma per chi?

Ma almeno per le vacanze questa generazione Erasmus ci andrà ogni tanto in Europa, no? Ryanair, Flixbus, BlaBlaCar: con poche decine di euro ormai si può organizzare un weekend in una capitale europea. Questi giovani cosmopoliti, si dice, hanno amici e partner in giro per l'Europa, e si muovono agilmente attraverso quelle frontiere che grazie a Schengen non hanno mai conosciuto. I dati però raccontano, ancora una volta, una storia diversa, almeno per quanto riguarda i giovani italiani. Secondo Eurostat, nel corso del 2017 l'87 per cento degli italiani under 35 non ha trascorso nemmeno una notte all'estero (il numero si abbassa un poco se si includono le trasferte di lavoro, ma la sostanza non cambia). Non bastano i trasporti economici, il livello di istruzione, la conoscenza dell’inglese (quella sì nettamente migliore rispetto anche solo alla generazione precedente), l'apprezzamento per la libertà di movimento: un italiano che ha due soldi e un paio di giorni da parte finisce quasi sempre per viaggiare in Italia – proprio come i suoi genitori o i suoi nonni. Secondo l'Eurobarometro il 52 per cento degli italiani non è mai stato in vita sua in un altro paese dell'Unione europea: non ci sono indicazioni che le cose stiano davvero cambiando per i più giovani. La generazione Erasmus, se esiste, è una minoranza molto piccola. Piccola, ma a suo modo agguerrita. In base ai dati Istat, l'anno scorso i giovani italiani che hanno fatto almeno una breve vacanza all'estero sono stati poco più di un milione e mezzo. Però gli stessi hanno compiuto più di 4 milioni di viaggi in Europa: i pochi che viaggiano all'estero insomma lo fanno spesso, in media tre volte all'anno.

 

La contronarrazione

La generazione Erasmus non è una generazione. È al più un club, un drappello, una comitiva, per i suoi numeri esigui. Quando leader politici e intellettuali si appellano alla generazione Erasmus rischiano di rivolgersi solo a una limitata fetta della popolazione giovanile italiana, più istruita e ricca, che meglio e più di frequente può giovare dei benefici della libera circolazione delle persone, dell’abolizione del roaming e della possibilità di studiare all’estero. Tutti gli altri, benché generalmente più europeisti rispetto al resto della popolazione (d’altronde sono genuinamente nati europei, non ricordano la Lira), rimangono esclusi. È un’ulteriore dimostrazione di un fenomeno che la letteratura economica ha ampiamente evidenziato: si stanno allargando le disuguaglianze che derivano dall’istruzione e dalla formazione, principalmente per i giovani che vivranno in un mondo sempre più basato sulla conoscenza. I leader europeisti farebbero bene a smetterla di rivolgersi solo a un’élite della popolazione giovanile, e invece fare di tutto per offrire alla maggioranza esclusa la possibilità di beneficiare delle libertà europee. Si parta da qui: ridurre la disoccupazione giovanile, combattere la povertà, investire in istruzione e ricerca. La via è lunga, siamo già in ritardo.

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