I pericoli dei "demoni anti-verdi". Una risposta ad Antonio Pascale
Quale è la narrativa più “inquinante”, quella catastrofista o quella normalizzatrice? In questo momento il problema non è certo l’eccesso di azione contro i cambiamenti climatici ma il suo esatto contrario
Nel suo lungo e stimolante articolo pubblicato ieri 3 giugno sul Foglio, Antonio Pascale interviene sul modo in cui la crisi climatica viene “narrata” e argomenta tra l’altro che la semplificazione catastrofista non aiuta, anzi smobilita perché induce a pensare che non ci sono soluzioni e ci incita giustamente a “studiare la complessità”, a evitare semplicismi e a valutare le soluzioni “realisticamente” disponibili, abbandonando quelle miracolistiche e ad effetto, come “target irraggiungibili” e non fidandosi di “pianisti” poco esperti, ma rumorosi.
La prima cosa che mi è venuta da pensare dopo averlo letto è che esattamente le stesse argomentazioni andrebbero utilizzate contro i demoni anti-verdi e cioè coloro – e in Italia sono numerosi- che negano o anche solo minimizzano la realtà dei cambiamenti climatici e i suoi costi sociali ed economici, che ci incantano con una narrazione rassicurante - finanziata peraltro a colpi di milioni di euro in lobbisti e uscite mediatiche, a differenza di ecologisti e associazioni - e ci presentano soluzioni decisamente ancora più “miracolistiche e ad effetto” di quelle ritenute tali dall’autore: dai, su, in fondo non va tutto poi cosi male, possiamo tranquillamente continuare a puntare sui nostri bei tubi di gas addirittura potremo portare gas al Nord Europa, anzi facciamone di nuovi perché tanto fra qualche mese li potremo riempire di idrogeno o magari di biogas dalle puzzette delle mucche; o ancora meglio facendo sorgere in pochissimo tempo qualche bel reattore nucleare, ovviamente sicurissimo, economico e decisamente più bello e imponente che quelle orribili pale eoliche.
Seriamente, quale è la narrativa più “inquinante”? Quella di chi ci avverte da anni che la situazione potrebbe sfuggirci di mano e che oggi riporta abbondanti fatti e numeri (e non storie) che ci dicono che si, in effetti ci sta sfuggendo di mano, ma che si potrebbe ancora, agendo rapidamente su emissioni e investendo sull’adattamento, almeno limitare i danni? O chi, con un bel sorriso ci tranquillizza e ci indica che possiamo allegramente continuare a fare come se niente fosse, sia a livello individuale che, molto più gravemente, a livello di scelte di modello energetico e climatico? Sono più pericolosi i ragazzi che fermano il traffico perché denunciano la mancanza di azione efficace e la totale assenza di ascolto o le multinazionali nostrane che orientano a loro vantaggio normative e soldi pubblici e contribuiscono da anni a bloccare lo sviluppo delle rinnovabili e delle tecnologie di risparmio energetico; e che si accaparrano milioni di euro non solo per bollette inutilmente alte, ma anche perché vendono le loro soluzioni “miracolistiche”, costosissime e alla meglio molto lontane nel tempo – come appunto nucleare o cattura del carbonio – o troppo vecchie, come rigassificatori e gasdotti – sulle quali figuriamoci se investono i loro soldi, molto meglio che lo faccia o garantisca lo stato?
A me la risposta pare evidente, perché in questo momento il problema non è certo l’eccesso di azione contro i cambiamenti climatici; bensì il suo esatto contrario, si fa e si investe troppo poco e si va anzi verso una battuta d’arresto che sarebbe davvero tragica, non solo perché escono continuamente rapporti scientifici ( e non narrazioni) che ci dicono che la situazione reale sia peggiore del previsto, che ogni giorni eventi estremi fanno danni e vittime e che l’impatto sul pil e le nostre vite sarà sempre più grave, ma perché oggi molto più che 10 anni fa ci sono le tecnologie non miracolistiche, ma vere, che ci possono accompagnare verso una transizione molto più rapida di quello che si crede anzi che ci vogliono fare credere. Ci sono infiniti numeri che lo dimostrano; per esempio, nel 2023, l’85 per cento di potenza istallata nel mondo veniva dalle rinnovabili e nel 2022 sono stati istallati 228 GW di solare e 77 GW di eolico mentre l’energia prodotta dal nucleare si è ridotta di 11 GW. E l’Enea riporta che gli interventi di efficientamento energetico hanno comportato nel 2022 un risparmio di 3 miliardi di euro e 6 milioni di tonnellate di Co2. E potrei continuare con il fatto che la “green economy” ha bisogno di più lavoratori e lavoratrici che i settori fossili, ecc ecc…
Lungi dal dimostrare che non è possibile eliminare la dipendenza dai fossili, il fatto riportato dall’autore che citando Victor Smil dice che oggi dipendiamo per l’84 per cento dai fossili (che hanno ricevuto sussidi pubblici per 7.000 miliardi di euro nel 2023) dimostra appunto che bisogna accelerare e che siamo in ritardo; i target di riduzione diventano “irraggiungibili” se non facciamo nulla per realizzarli perché è evidente che si tratta di una impresa grandiosa di cambio di modello economico, culturale e sociale; rappresentano secondo la scienza il minimo sindacale, data la maturità di molte green tech; bisogna assolutamente spostare i miliardi ancora buttati in sussidi ambientalmente dannosi in soluzioni e tecnologie verdi, formando adeguatamente lavoratori e lavoratrici e accompagnando i settori sociali più vulnerabili, investendo nella qualità delle case e in trasporti pubblici e non sprecando miliardi in sussidi o a pioggia per pagare le loro bollette o in bonus che beneficiano tutti e non chi ne ha davvero bisogno, prosciugando le casse pubbliche.
Ci sono poi alcune affermazioni dell’autore che vale la pena di discutere, proprio in ossequio al rifiuto della semplificazione e alla complessità. Per esempio, come si definiscono le soluzioni “realistiche”? Mettiamoci d’accordo su un criterio semplice: quelle che fanno più ridurre le emissioni e più rapidamente, fermo restando che in futuro ce ne saranno molte altre che però ancora non si vedono e che dunque oggi non sono prioritarie: sono sostanzialmente rinnovabili, efficienza energetica, reti, elettrificazione. Poi è chiaro che bisognerà discutere di come ridurne l’impatto ambientale, geopolitico, di come farle al meglio, di quali scegliere per quale territorio ecc. ecc. ma quelle sono per i prossimi anni: gli anni che ci servono per assicurare che l’impegno a diventare il primo continente a emissioni nette zero nel 2050 si realizzi e con esso tutte le conseguenze positive che già sarebbero molto più visibili, se in anni passati non ci fossimo distratti tra le altre cose con il gas russo a buon mercato. Ma ci deve essere almeno un accordo di massima su questo, magari con spazi di discussione pubblica seri, che riescano a coinvolgere le persone, le università, i cittadini, le imprese perché alla fine la transizione è affare di tutti e tutte.
C’è un’ultima considerazione che vorrei fare. Non è detto che la transizione ci obblighi, come sostiene l’autore, a stare peggio e a rinunciare alla nostra qualità di vita. A me pare piuttosto vero il contrario; le abitudini e le esigenze cambiano, oggi un/a giovane non ha necessariamente l’urgenza di avere un’auto per sentirsi libero e moltissimi vorrebbero vivere in città meno inquinate e mangiare cibo sano e senza pesticidi. Certo ci sono i telefonini e gli aerei, e allora lavoriamo su questo e non diciamo che è più “realistico” rallentare. Quindi affrontare i cambiamenti climatici con ottimismo e visione, distinguendo anche litigando fra le soluzioni possibili e quelle illusorie è una grandissima, ma anche affascinante responsabilità della nostra generazione. La narrazione “catastrofista” purtroppo non è più una narrazione o un insieme di storie. È la realtà, con la quale è bene fare i conti al più presto appunto per evitare che ci travolga davvero.
Monica Frassoni è presidente della European Alliance to Save Energy (EU-ASE)