LaPresse

nella gabbia dei social

I forsennati dello showbiz non tollerano pause dallo spettacolo social

Fabiana Giacomotti

Manifestazioni sotto casa per i Ferragnez che non si fanno vedere online e indignazione per Hugh Grant che risponde a monosillabi la sera degli Oscar. Il dramma dello “show” che, come da locuzione, “must go on”

Che la logica del “facce ride” sulla quale ormai si basa il gran traffico dei social fosse giunta a un grado di pericolosità superato il quale sarebbe rimasta solo l’accetta della Annie Wilkes di “Misery”, s’era capito quando, chiuso il festival di Sanremo sul bacio molto telefonato di Fedez con Manuel Rocati in arte Rosa Chemical con codazzo di illazioni sullo stato del suo matrimonio con Chiara Ferragni, una fan milanese dalla sintassi incerta aveva lanciato su Twitter la proposta di un flashmob allo scopo di far riconciliare la coppia. L’incontro si sarebbe tenuto in piazza Duomo e sarebbe stato accompagnato da striscioni e t-shirt. Incredibilmente, oltre al solito quarto d’ora di celebrità, la signorina aveva raccolto un numero di adesioni superiore agli insulti. Nessuno di questi protagonisti dell’esistenza per interposta persona, il genere al quale un tempo potevi suggerire di farsi una vita e adesso no perché suoneresti “escludente” in un mondo dove anche il laboratorio di analisi sottolinea con sussiego che “condividerà” solo con te via mail le informazioni sullo stato delle tue piastrine, grazie infinite credevo ci fosse una legge a tutelarmi, voleva infatti perdersi una puntata del suo serial preferito, gratuito e in apparenza senza pubblicità. L’estremizzazione del concetto dell’inclusione a ogni aspetto della vita era già stata ipotizzata da Carl Einstein cento anni fa nel ferocissimo saggio “Snob” in cui teorizzava come la società del consumo, basata sulla riproduzione infinita, ci avrebbe portati a confondere i piani logici della similitudine, ma di certo nemmeno lui, l’espressionista del pensiero filosofico, avrebbe potuto immaginare che la nascita dei social, al tempo stesso libera narrativa e sistema di controllo fra individui, avrebbe instillato in questi rapporti già falsati il senso di un possesso geloso. Misery non deve morire, i Ferragnez devono restare insieme a vita. Non è da escludere che se la promotrice del flash mob avesse avuto sottomano per qualche ora i signori Lucia, nom de famille della coppia Ferragnez, li avrebbe segregati almeno per qualche ora, fosse solo per spupazzarseli un po’ e come ovvio trasformare il video del sequestro in una cliccatissima “stories”, come tutti chiamano quella funzione di Instagram che permette di caricare filmini temporanei e che immancabilmente scrivono al plurale, stories e non story, perché l’hanno trovata indicata così fra le opzioni d’uso e non si sono mai domandati se non fosse più corretto definire ogni video caricato sul social al singolare, una story per volta. Hai messo la stories. 

E’ aberrante anche scriverlo, ma rientrano nello stesso ordine di pensiero, nello stesso universo semantico, i video delle violenze a disabili, ragazzine, insegnanti, animali, caricati da un numero impressionante di adolescenti incapaci di riconoscere i codici morali del rispetto per la persona e l’estensione massima del concetto di proprietà e le dinamiche del racconto; tutto è intrattenimento, tutto è “facce ride”, e Misery non deve morire mai, almeno fino a quando arriva la polizia e se non altro arriva presto, perché le stories lasciano tracce più durature di quanto creda questa generazione di registi improvvisati che poi, quando scattano le manette, dichiarano immancabilmente di non aver mai pensato di fare qualcosa di male. Dopotutto stavano solo condividendo una stories al plurale. Lasciare da privato questo mondo di intrattenimento pubblico è meno facile di quanto sembri: nel momento in cui Fedez, anticipato da molti altri in questi ultimi mesi, vedi per esempio Lapo Elkann che ben prima di lui è stato oggetto di culto voyeuristico e di furiose polemiche, ha deciso per motivi suoi di prendersi una “pausa dai social”, ha dovuto comunicarlo in via ufficiale, come un impresario che spuntasse dalle quinte del palcoscenico per comunicare che il prim’attore ha avuto un mancamento e che lo spettacolo verrà sospeso, signori non prendetevela vi restituiremo i soldi, non tirate pomodori, signori suvvia. E in effetti questo è Fedez, un attore; e questo, in buona e differente misura, siamo tutti noi con i nostri cento, mille, diecimila follower. Interpreti della nostra esistenza, data in pasto al pubblico a scopo di intrattenimento e per taluni su base commerciale, da cui l’ovvia richiesta di risarcimento dei fan delusi in caso di défaillance. 

L’ira funesta degli spettatori e la coercizione alla replica dello spettacolo di successo non è certo una dinamica recente, anche Louise May Alcott venne costretta a scrivere il sequel a “Piccole donne” e dovette resistere alle pressioni del suo editore che voleva facesse sposare Jo March con Laurie, che era bello e ricco, e non con il vecchio professor Bauer che non rappresentava invece il modello maschile al quale una generazione di lettrici cresciute e vestite a scopo di matrimonio si aspettavano. E’ questo il risvolto più sgradevole del reality show personale, del racconto di sé in apparenza ventiquattr’ore su ventiquattro (è sempre tutto in apparenza, ma la narrativa lo è per sua natura, dopotutto, lo dimostrano le schiere di scrittori che da trenta secoli a questa parte si affannano a spiegare che non sono loro madame Bovary, tranne naturalmente l’unico a cui convenisse rivendicare l’identificazione in spregio a un tribunale bigotto e a futura gloria eterna, e cioè il suo autore): nella vita di oggi ci vuole il sequel, e pure del genere gradito a un pubblico di gusti mediamente medi a cui cerca conferma continua sull’hashtag #comesivedonoisondaggivotatisuinstagram. Dai suoi personaggi preferiti, la gente non vuole storie o stories inedite; vuole il prosieguo a storie che già conosce secondo i canoni e le dinamiche che ama e che ha già scelto e che segue esclusivamente tre filoni. Il lieto fine, oppure la sparatoria, oppure e anche peggio, ma tutto incluso nell’aurea mediocritas della certezza. 

I grandifratelli che durano sei mesi seguono esattamente la stessa dinamica: offrire il già noto in quella certa, precisa sequenza. Per questo, dopo la diretta della serata degli Oscar, centinaia di migliaia di follower della medietà narrativa se la sono presa con Hugh Grant che rispondeva a monosillabi, come avrebbe fatto qualunque persona senziente, alle domande scontate di Ashley Graham, messa lì a fare body positivity e a ripetere con quell’insopportabile squittio West Coast lo stesso rito stantio del “dimmi chi ha fatto il tuo vestito”. Perché nel mondo dell’uguaglianza social dove la differenza è data solo dall’etichetta che sfoggi, è impossibile che tu non voglia offrire al mondo la narrazione che il mondo si aspetta e che il tuo vestito sia stato fatto da un sarto anonimo, che è quanto invece ha risposto l’idolo della nostra giovinezza che significava sono fatti miei, non rompere con le tue questioni idiote e magari mettiti addosso anche tu un vestito decente che non c’è bisogno di sbattere in faccia al mondo tutta la tua body positivity. 

Il dramma dello “show” che, come da locuzione, “must go on”, e che deve seguire le unità aristoteliche alla virgola, non colpisce solo i Ferragnez e si estende anche a chi, come Lady Gaga o Rihanna, per tenersi stretta la propria vita, ha aperto un profilo “official”, cioè narrativa personale orchestrata da terzi a pagamento, gente che filtra immagini, notizie, spigolature come un qualunque ufficio stampa. Colpisce perfino noi con i quattro amici che ci seguono quando non pubblichiamo post per tre giorni di fila. Al quarto c’è qualcuno che apre il fascicolo dell’inchiesta: e perché sei sparito, e va tutto bene, e sei sicuro che vada tutto bene, a me puoi dirlo sai. In caso decidessimo di tenere duro, come i fumatori intenzionati a smettere, al sesto giorno di astinenza verremmo comunque scossi dall’algoritmo: è “un po’ che non pubblichi” e il “web non è lo stesso senza di te”, delicata e inconfutabile espressione che fa leva sul nostro sentimento più nascosto, la vanità, e al quale, generalmente, finiamo per soccombere. E via con un’altra stories, un altro pezzettino di vita sacrificata sull’altare di non si sa bene che cosa fino a quando si sa anche troppo. 

Che cosa succeda a concentrare tutta la propria attenzione sull’intrattenimento del popolo social s’è visto l’altra settimana a Parigi quando, nel più drammatico degli autodafé mai imposti dal sistema già molto crudele della moda, il direttore creativo di Balenciaga, Demna Gvasalia, travolto lo scorso dicembre dalla campagna pubblicitaria con i bambini che tenevano fra le braccia peluche di ispirazione sadomaso, ha fatto sfilare la nuova collezione di pret-à-porter nei sotterranei del Louvre, spogli e bianchi come il saio di un condannato, accompagnandola con una nota che assomigliava all’abiura di Galileo Galilei: un papello lungo così sul quale aleggiavano lo “spirito del fondatore tradito” dalla precedente sfilata, messa in scena in una sala piena di fango e naturalmente molto cliccata, e la necessità di “tornare alle origini”, che fra l’altro non si capisce nemmeno più quali siano e soprattutto a chi interessino oltre che agli storici della moda, visto che nel 1968 in cui il geniale Cristobal chiuse bottega, accompagnato dal lutto delle sue facoltose clienti fra le quali Mona von Bismarck che si chiuse in camera per tre giorni, le Kardashian e le altre ragazzotte che oggi smaniano per le sneaker di maglia col logo e le cagoule che coprono volto, mani e piedi, non erano nemmeno nei sogni delle loro madri e comunque, valutando il gusto di cui danno prova quando sbarcano a Portofino ospiti dei Dolcegabbana, mai avrebbero potuto permettersi di vestire Balenciaga che probabilmente non le avrebbe nemmeno accolte in atelier (nota: nemmeno adesso per vestire haute couture basta suonare il campanello e mostrare l’iban). Nell’abiura di Demna si leggevano in controluce tutti i punti che vado elencando dalla riga uno di questo articolo. Il primo: la schiavitù dell’intrattenimento a mezzo social come unica forma di narrazione possibile di attività intellettuali-creative-industriali che necessiterebbero invece di approfondimento, o almeno di quel minimo di attenzione che l’ottundimento da TikTok ha reso difficoltoso anche per un pubblico adulto. Il secondo: la necessità di dare valore alla differenza. Così come non siamo tutti uguali e l’inclusione non equivale alla negazione della diversità, c’è differenza fra un capo fatto a mano, costruito secondo regole, simmetrie o asimmetrie volute e precise, e uno cucito in una fabbrica del sud est asiatico da donne sottopagate che fanno turni di lavoro di sedici ore, e questa differenza non è data solo dal prezzo (in sott’ordine: bisogna studiare e concentrarsi anche quando si compra una gonna, sebbene i brand vorrebbero vederci concentrati solo sull’etichetta come se fosse un atto di fede). 
Può darsi che non ce la farà, Demna, a superare il momento e lo scandalo, esattamente come non ce l’ha fatta Steven Spielberg a vincere un Oscar per quei suoi favolosi Fabelmans che sono una narrazione adulta per adulti e Tom Cruise a convincere del tutto la gente che valga la pena infilarsi un paio di jeans, un maglione e andarselo a vedere in sala, un film in cui le misure dello schermo sono gran parte dell’intrattenimento. A questi fuoricasta che resistono alla narrazione imposta dalle Annie Wilkes e che le bruciano in faccia finti romanzi, dovremmo essere tutti molto grati.