Il colore delle pareti della stanza può essere un antidoto al malessere

Costantino della Gherardesca

Quando vivevo a Londra stavo in una camera che avevo dipinto di grigio. Finché mio cugino Manfredi, venuto a mancare qualche settimana fa, mi affittò l’appartamento sotto la sua nuova casa. Le pareti erano gialle, io misi un tappeto nero, senza mai smettere di volergli bene

C’è stato un anno, nella seconda metà dei Novanta, reso scomodo dalla paura. In quel periodo vivevo a Londra, in una stanza che avevo dipinto di color grigio malessere. Non avevo neanche un letto vero e proprio, ma nient’altro che un sottile materasso buttato per terra. Una sfoglia di gommapiuma che solo il più entusiasta degli agenti immobiliari avrebbe potuto definire “un futon”.
Le stelle non volevano che io dormissi: se per miracolo fossi riuscito a chiudere occhio, il casino che arrivava dal pub sottostante mi avrebbe comunque risvegliato. Facevano musica dal vivo fino alle tre di notte e, finita la musica, verso le cinque del mattino, nella strada riecheggiava come il canto del gallo il rumore devastante dello sguattero del pub che rovesciava nei bidoni la spazzatura accumulata nell’arco di una notte. Una notte di baldoria per i clienti del locale, un abisso di insonnia coatta per me. Nell’esatto momento in cui le bottiglie di vetro esplodevano in frantumi crollando su se stesse, il livello del mio disagio raggiungeva vette tanto storiche quanto preoccupanti.


Ma per risalire alla fonte dei miei problemi non era necessario scendere al pub, bastava aprire la porta della mia stanza grigia e incrociare lo sguardo della mia coinquilina borderline. Viveva nella camera accanto e di mestiere apriva dei varchi spazio-temporali nel Moselle, un fiumiciattolo che attraversava il cimitero di Tottenham per poi riversarsi nel Pymm Brooke. Per essere più chiari (cosa che l’avrebbe fatta inorridire), la tizia costruiva scatoloni e li buttava nel fiume. O meglio, faceva costruire delle strutture di plastica e legno a un servizievole musicista, un uomo incapace tanto di suonare quanto di sottrarsi alla sua condizione di prigioniero sentimentale (tant’è che la mise incinta). Non escludo che, oltre a costruire le scatole, a lui toccasse anche l’ingrato compito di lanciarle nel Moselle.


L’idea di questi varchi spazio-temporali era figlia di un genere d’arte piuttosto ostico al quale la mia coinquilina aveva cominciato a interessarsi dopo un’infatuazione per Steven Pippin, un artista che fece l’errore fatale di prestarle attenzione per una decina di minuti, rompendo così per sempre il fragile equilibrio che le faceva seguire i ritmi circadiani.

   
Un bel giorno, una delle scatole venne lanciata nel Moselle ma, invece di riempirsi di tempo rubando spazio al fiume, si riempì d’acqua rubando risorse al dottor Michael Gormley, fratello dello scultore Antony, professionista che aveva dedicato la sua carriera a dirigere i suoi pazienti verso i confini meno tradizionali della medicina.

  
Nello stesso quartiere in cui si trovava la mia stanza – o meglio quel Cubo di Lemarchand dove mi arrivavano le bollette – c’era un ragazzo, Chris Teckkam, che aveva un gruppo musicale radicalmente dissonante rispetto al genere di cose che normalmente andavamo a sentire ai concerti, niente a che vedere con Tortoise, Godspeed You! Black Emperor, David Grubbs né tantomeno Keith Rowe o qualsiasi altra roba si potesse sentire al Barbican. La band di Chris, seguendo la tradizione di Valie Export, si chiama Ten Benson, come le sigarette. Erano fuori moda e quindi divertenti.


Un paio di settimane fa, mentre ascoltavo Bbc Radio 6 Music, con mia grande sorpresa ho sentito quattro o cinque loro brani, tutti di fila, ripescati chissà per quale ragione. Poco dopo, lo stesso giorno, sono venuto a conoscenza di una notizia difficile da accettare: mio cugino Manfredi ci aveva lasciato.

 
La prima cosa che mi è venuta in mente è stata un’eclisse solare, avvenuta sempre in quell’anno verso la fine dei Novanta. Ricordo che andai a vederla insieme ai pessimi artisti delle scatole come fosse un evento speciale, ma era tutt’altro: era la stessa quantità di luce che mi arrivava ogni giorno in quel buco di stanza. Finché Manfredi, prima dello scoccar del millennio, mi affittò l’appartamento sotto la sua nuova casa.

  
Le pareti erano dipinte di giallo, io misi un tappeto nero, senza mai smettere di volergli bene.

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