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Dalla politica al marketing, la rinnovata prevalenza della fede sulla fiducia

Giacomo Papi

Un giornale nazista negli anni Venti magnificava impunemente i capelli biondi di Hitler nonostante la foto rendesse evidente il contrario. Non saremo tornati sotto il totalitarismo, ma il meccanismo per cui viene creduto qualunque messaggio ripetuto per un numero sufficiente di volte è sempre lo stesso

Mi sembra che molto di quanto sta accadendo in questo secolo – dall’11 settembre ai No vax, da Chiara Ferragni a Gucci, da QAnon al negazionismo su Bucha – possa essere spiegato con la differenza tra fede e fiducia. Non parlo soltanto di fede religiosa, per quanto centrale sia stato e sia il terrorismo islamico negli ultimi trent’anni. Parlo del fatto che la fede sta tornando a prevalere sulla fiducia in ogni campo, dalla politica al marketing. Parlo del fatto che a decidere l’identità e l’appartenenza di masse sempre più grandi di persone, e a determinare quindi che cosa debba essere considerato vero e reale, sia sempre di più l’atto di credere. Quando parliamo di fake news, quando ci chiediamo come mai il movimento No vax sia così esteso e come possa essere possibile che in tanti, non solo in Russia, pensino che le stragi in Ucraina siano una montatura, ci stiamo meravigliando del fatto che esiste un’umanità che ha una fede alternativa alla nostra.

 

La fede è sempre stata un meccanismo fondamentale della politica: ogni società umana fin dalle origini si è fondata sulla decisione collettiva di credere insieme alla stessa realtà, agli stessi dèi, sacerdoti e poteri; sul credere che certi cibi siano impuri e che il re sia re perché Dio ha voluto così. Per questo la fede è il tratto distintivo dell’assolutismo e di ogni totalitarismo. Per questo tutte le dittature si fondano sulle fede. Non a caso uno degli slogan del fascismo era “Credere Obbedire Combattere”. Non a caso – come ricordo spesso e come ha scritto George Mosse in Le origini culturali del Terzo Reich – negli anni Venti il giornale nazista Ostara, Briefbücherei der Blonden und Mannesrechtler (Ostara, giornale per biondi e maschilisti) poteva impunemente magnificare i capelli biondi di Hitler nonostante la foto rendesse evidente il contrario. 

 

Il processo politico che si era messo in moto nel Settecento – la famosa “uscita dell’uomo dallo stato di minorità autoimposto” con cui Kant definì l’Illuminismo – potrebbe essere descritto proprio come il faticoso passaggio dalla fede alla fiducia, come una scommessa collettiva sul fatto che la fiducia, non la fede, avrebbe potuto formare l’opinione pubblica e cementare una società coesa. La democrazia, in fondo, dovrebbe essere questo: un sistema politico che non chiede più ai suoi sudditi atti di fede sulla legittimità del potere, ma li invita a fondare quella stessa legittimità esprimendo liberamente il proprio voto, dopo averli trasformati in cittadini. Le democrazie si fondano sui parlamenti perché si fondano sulla parola, sull’idea che le decisioni giuste possano essere raggiunte attraverso il dialogo e il libero dibattito tra pari. 

 

Anche se sono legate, fede e fiducia hanno differenze abissali: la fede è un atto, la fiducia è un processo; la fiducia si costruisce, si conquista e si perde, mentre la fede è incrollabile perché una volta data non si può più revocare senza diventare eretici e traditori; la fiducia si basa sull’osservazione e sull’ascolto, la fede è sorda e cieca (e nel caso della didascalia di Hitler anche daltonica); la fiducia è una relazione che impone la conoscenza reciproca e della realtà, la fede può basarsi sull’assurdo. Il problema è che, da un punto di vista politico, la fiducia è lenta, laboriosa, farraginosa tanto quanto la fede è efficiente e agile, comoda sia per chi comanda che per chi ubbidisce.

 

Anche se passiamo la vita a litigare e discutere (o a veder litigare e discutere) il dibattito è sempre meno concepito e praticato come lo strumento grazie a cui si possono prendere le decisioni politiche giuste. Ma si è trasformato in uno spettacolo fine a sé stesso perché gli schieramenti sono sempre già dati, immodificabili in partenza, prima che si cominci a parlare. Non mi sto riferendo soltanto alla politica, parlo anche della fede nelle medicine, del seguito degli influencer e della potenza dei marchi, del fatto cioè che in massa si sia disposti a credere a qualcuno o a un brand, affidandogli la propria identità. Paradossalmente, il ritorno di un meccanismo religioso nella politica potrebbe essere un fatto di marketing: qualunque messaggio, anche politico, se ripetuto per un numero sufficiente di volte, viene creduto. Ed è l’idea alla base dello storytelling per cui non è reale quello che è vero, ma quello che viene raccontato meglio (una volta si chiamava relativismo). Ho la sensazione, cioè, che l’atto politico fondamentale – forse non soltanto per No vax, trumpiani e filoputiniani, anche per noi sinceri democratici – sia decidere a chi credere. Ma se l’opinione e l’identità non si formano più nel dibattito, si fissano per appartenenze contrapposte. Ognuno segue quelli a cui crede e vede soltanto la realtà del gruppo a cui appartiene. Alla base delle bolle dei social c’è ancora la logica della tribù. E della guerra.

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