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spazio okkupato

La politica zitta sul corpo, confine invalicabile pure per placare il dolore

Giacomo Papi

In materia di vita e di morte è sempre in corso una battaglia linguistica. Ma il vero problema è che un corpo al servizio della propria volontà è fonte di diseguaglianza: chi non ne dispone non può lenire il dolore senza l’aiuto degli altri, e su questo la politica continua a essere muta

Questo è il testo del quesito referendario bocciato dalla Corte costituzionale: “Articolo 579 codice penale con le relative abrogazioni referendarie (omicidio del consenziente). Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio [575-577] se il fatto è commesso:
Contro una persona minore degli anni diciotto;
Contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno [613 2]”.

La cancellazione delle parole in neretto sarebbe bastata, cioè, a rendere non punibile “l’omicidio del consenziente” salvo che nei tre casi indicati. Per quel che ne capisco, stando alla lettera del testo, se il referendum fosse passato in Italia qualunque persona maggiorenne e non “inferma di mente” avrebbe liberamente potuto chiedere a un’altra di essere uccisa. In attesa di leggere la sentenza che sarà depositata nei prossimi giorni, la Corte costituzionale ha fatto sapere di avere giudicato inammissibile il quesito “perché, a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”. La questione è stata così rimandata al Parlamento per lo sconforto e la disperazione di chi una legge in materia la aspetta da decenni per convinzione o per disperazione.

Il punto è che nel nostro ordinamento la vita è tutto quello che abbiamo, ma non l’abbiamo davvero. O almeno, non fino in fondo perché non possiamo disporne fino a negarla. Per il Codice penale italiano suicidio e tentato suicidio non sono punibili soltanto per mancanza di effetto deterrente. La libertà personale è inviolabile finché non nega la più privata delle nostre proprietà – la vita, il corpo vivo che siamo finché esistiamo – che appartiene alla collettività, alla cultura/religione/ideologia dominanti, ed è pertanto sottratta all’esercizio della democrazia diretta. Come ha riassunto con mirabile sintesi, gongolando, la senatrice cattolica Paola Binetti: “Sulla vita non si vota”. Non direttamente, non in Italia, non in un referendum.

Lo slogan di Binetti conferma che in materia di vita e di morte è sempre in corso una battaglia linguistica, che precede e forse orienta il diritto e le leggi. Al vizio di proclamarsi “pro vita” dei cattolici, insopportabile perché accusa implicitamente gli altri di essere “pro morte”, corrisponde lo sforzo semantico di non associare il referendum all’“omicidio del consenziente”, ma al “suicidio assistito” o all’“eutanasia legale”. Il tentativo comune è edulcorare la maestosità e la mostruosità del tema su cui occorre decidere. Prendiamo il termine “eutanasia”. Leggo sul sito dell’Accademia della Crusca che si tratta di un cultismo, un termine tecnico tratto da un lessico specialistico, spesso inventato di recente o recuperato da lingue antiche. Come si sa “eutanasia” deriva dal greco “eu” (buona) e “thanatos” (morte). Il problema è che nel corso della storia il concetto di “buona morte” è cambiato. E’ stata via via la morte serena degli stoici, quella estatica dei santi, eroica dei soldati e indolore dei borghesi. Ma è stata anche il “colpo di grazia” (attestato in italiano dal 1771 e in francese dal 1671), cioè l’atto pietoso di uccidere chi sta soffrendo e non ha più speranze di sopravvivere. Per questo, spiega la Crusca, nel Medioevo e nel Rinascimento “si chiamavano misericordie (XIII sec.) i pugnali a lama lunga e sottile utilizzati a questo scopo”.

In ambito medico “eutanasia” cominciò a essere usato nel '600, in Germania e Inghilterra, grazie a Francis Bacon, giunse in Italia nel '700, ma solo nel 1905 comparve nel “Dizionario moderno” di Alfredo Panzini come “la buona, la placida morte mercé l’opera medica che con farmachi toglie la pena dell’agonia”. La buona morte non esiste. E’ sempre cattiva. La Costituzione italiana tutela la salute, ma non tutela la morte e non parla del corpo, il confine che non si può oltrepassare neppure per un atto misericordioso, per esaudire la volontà e interrompere il dolore dell’altro. La fonte di una diseguaglianza che non si può lenire senza l’aiuto degli altri, su cui la politica continua a essere muta. Può disporre della propria vita solo chi dispone dello strumento che può deciderne: un corpo al servizio della propria libertà e volontà. Quando quello strumento manca perché il corpo non è più in grado di ubbidire, la vita finisce per assomigliare alla morte e finisce la libertà di morire.

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