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"Basta, me ne vado!"

Fenomenologia degli indignati con il ditino alzato: i Disgustati in Partenza

Marco Archetti

Il popolo del no al green pass ha riattualizzato la faccenda, ma esistevano anche ai tempi del Berlusconi trionfante. I vittimisti sempre pronti a fare le valigie quando la realtà non aderisce ai loro desideri continuano a essere tra di noi. Un'interpretazione

Chi se ne va, che male fa? Non ne fa. In teoria. Ma siccome todo cambia, i paradigmi anche, nonché le nostre trucibalde dittature sanitarie che avvolgono la salma democratica nel drappo delle certificazioni – avete qualcosa da mettervi per il ballo del Grande Reset? – è giunto il momento di rispondere con trent’anni di ritardo alla domanda che, per bocca di Caterina Caselli, Paolo Conte ci poneva retoricamente. Chi se ne va, fa il male di dircelo. Il male di notificarcelo, di insistere e di conclamare che ha aperto l’armadio e le valigie stanno prendendo aria, obbligandoci a guardarlo mentre si esibisce e rivendica, su tutti i social, il proprio martirio speciale (ah, il de-platforming). Negli ultimi giorni il protagonismo è stato tutto dei No green pass, ma la sensazione è che la questione abbia solo dato nuova stura a un vecchio fenomeno, quello – tentiamo una definizione – degli expat nominali, declamatori, araldici. Il fenomeno, cioè, non di coloro che se ne vanno a causa di problemi veri, ma di quelli che se ne stanno sempre andando a causa di tutto.

 
Erano gli anni in cui Berlusconi vinceva le elezioni quando, per la prima volta, avvistammo questa falange che qualcuno credette romantica, falange di cui, in segreto, nei momenti di più cocente disorientamento (“il principale esponente dello schieramento a noi avverso…”) abbiamo invidiato la coerenza, la poetica persistenza in un mondo di riferimenti giovanili, la capacità morale di dare seguito alle idiosincrasie rompendo gli indugi e abbracciando una Svizzera redentrice o, all’opposto, l’arcinoto chiringuito a Santo Domingo, emblema del supremo indennizzo buonselvaggista contro le angherie della società capitalistica, occidentale, e bla bla bla. “Basta, me ne vado!” esclamavano questi agguerriti in faccia a noi che li guardavamo affascinati e perplessi. “Non posso pensare che i miei figli vivano in un paese in cui B. è presidente del Consiglio!” (immancabile, nelle velleitarie epopee italiane, la movimentazione melodrammatica dei figli: chi si arrende li butta avanti, chi sbatte la porta li butta altrove). Ma, a pensarci bene, non c’è esito di referendum, caduta di governo, insediamento di governo tecnico, nomina di presidente o refolo di vento che non abbia generato un plotone di Disgustati in Partenza. “Me ne vado, #micostringono, non posso accettare anche questa, con che faccia guarderei i miei figli il giorno in cui mi chiederanno conto?”. Come ovvio, in ballo non ci sono mai tragedie abominevoli, ma epifenomeni sovrainterpretati cavalcando un adolescenziale rifiuto della realtà se questa non coincide con le proprie ubbie, letture patologicamente narcisistiche della Storia universale, vittimismo canterino, codardia agghindata con l’enfasi dell’opposto e, in sintesi, sbronza cattiva – tweet recente: “Un giorno tornerò e sarà la resa dei conti, la vedrete tutti!”.

 
Sono tra noi, potremmo essere noi. I Disgustati in Partenza, mentre stanno per partire, si ergono sulla marea dei conformisti. Dal loro dito indice ammonitore sgorgano grandi bisettrici morali, a dividere gli Uomini dagli Schiavi. I Disgustati in Partenza, mentre stanno sempre partendo, ci guardano con l’accondiscendenza che si riserva ai lenti di comprendonio. Ci fanno immaginare un mondo di giustizia cui noi non potremo mai ambire, e boschi, e vallate col sole più caldo di te, luoghi di perfezione che meritano, invece, la loro vivente testimonianza morale. I Disgustati in Partenza, partendo, si sono già dimenticati di noi e saranno a malapena raggiunti dalle flebili notizie del nostro naufragio. E in fondo è anche bello immaginarli così – sazi, felici, in pace, solo sporadicamente illanguiditi al pensiero del ragù di mamma… Ma il loro ritratto più implacabile, mi ricorda l’amico Gabriele Grasselli, ce l’ha offerto Alberto Sordi condividendo un ricordo di gioventù. Minacciava di volersene andare. Sua madre, versandogli la minestra: “Ma ’ndo vai?”. E lui, afferrando il cucchiaione: “Già, ’ndo vado? … E resto accasa, ’ndo vado?”.

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