Insulti (e cortocircuiti) a miss Mondo Italia

A un concorso di bellezza quella deve essere giudicata, e non altro. Altrimenti hanno ragione le femministe a dire che non sono altro che un mercato delle vacche

Fabiana Giacomotti

Forse ha ragione l’amica regista saudita (per inciso e solo perché coerente con il tema, lesbica: vive quasi sempre a Londra) che dice quanto siamo ipocriti noi occidentali con la nostra pretesa di togliere burqa e hijab alle donne medio-orientali, che peraltro in origine è pratica ebreo-cristiana, quando poi tolleriamo i concorsi di bellezza che lei definisce una “slave auction”, cioè un’asta di schiave.

Ha ragione, l’amica saudita, perché quando noi italiani che ci dichiariamo tanto evoluti e tolleranti da non aver bisogno di una legge contro l’omofobia copriamo di insulti con il solito avallo dei social una ventenne arrivata in finale a miss Mondo Italia con l’unico metro del suo orientamento sessuale (“sei passata solo perché sei ghei”, proprio con questa grafia), questo stiamo dicendo: che la bellezza femminile è commisurabile solo al desiderio, anzi alla pretesa di possesso, da parte del maschio. Dunque, in prima battuta stiamo dicendo che una donna omosessuale, non ufficialmente disponibile a meno di non costringerla cioè di stuprarla che è non a caso uno dei capisaldi del machismo, non merita di partecipare a un concorso di bellezza, tanto meno di vincerlo. E che, valutazione conseguente, i concorsi di bellezza sono per l’appunto aste di schiave o di vacche, secondo una vecchia posizione femminista, va da sé molto osteggiata dagli infiniti estimatori di questo circo Barnum del corpo ben fatto (non è una citazione a caso: il primo a tentare di esporre femmine discinte al pubblico giudizio fu lui, sempre nell’ottica del guardonismo freak).

  

Per venire al caso in oggetto, che in queste ore condivide il trend topic social con Carlo Freccero e il referendum no Green Pass, oltre alle ragioni evidenti e già esposte sui motivi per i quali a un concorso di bellezza quella deve essere giudicata, e non altro, c’è da domandarsi perché una ragazza intelligente come Erika Mattina abbia voluto partecipare a una fiera così deprimente della propria, bellissima, fisicità.

Lo scrivo con una certa cognizione di causa, essendo stata da una parte e dall’altra della ribalta e avendone ricavato in anni lontani inutili fasce e in epoche più vicine il costante imbarazzo di dover porre un certo numero di domande cretine. Forse a vent’anni si è così felici e orgogliose della propria bellezza da non rendersi conto dell’atmosfera malsana di queste cerimonie, o forse si punta alla borsa di studio-occasione di lavoro-contratto pubblicitario connesso che in genere sono di secondo piano. Di sicuro, Erika e la sua fidanzata Martina Tammaro, che molto ingenuamente si felicitava via Instagram per il risultato, non avevano valutato la profondità delle radici patriarcali di questo paese, e benissimo ha fatto la seconda a replicare agli hater con un messaggio d’amore (“nonostante gli insulti e le critiche insensate che stai ricevendo in queste ore, tengo a dirti quanto io sia fiera di te”).

  

 

Ma il punto non cambia, ed è che è i concorsi di bellezza sono l’espressione di un mondo artificioso, un diorama museale in cui gli esseri rappresentati, uomini o animali, ripetono in eterno gesti sempre uguali, stereotipati, identici, a favore di un sistema che ha imparato a perpetuarsi con ogni mezzo. Il costume sgambato, il sorriso fisso, la risposta banale: una coreografia elementare che continua a riproporsi, alimentata perfino e in totale inconsapevolezza da chi dichiaratamente la combatte. 

 

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