Un corteo a Genova in occasione del G8 2001 (foto Ansa)  

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Da Genova vent'anni dopo, tre insegnamenti sul mondo di oggi

Giacomo Papi

Le proteste e gli scontri in occasione del G8 sono stati l'ultimo evento del Novecento e il primo del Duemila. A partire dai documenti: per la prima volta, un fiume di foto e video, un'anticipazione dei social

Un giorno di qualche anno fa ho telefonato a Mario Placanica, il carabiniere che in piazza Alimonda sparò e uccise Carlo Giuliani. Mentre il telefono suonava libero speravo che non rispondesse nessuno, perché nessuno avrebbe potuto dirmi qualcosa di più di quanto non potessi capire pensando. Placanica per fortuna non rispose e io non richiamai più. Sul G8 di Genova in questi giorni è stato scritto tutto, ma è in parte mancato, mi pare, lo sforzo di una prospettiva storica. A vent’anni di distanza mi appare come l’ultimo evento del Novecento e insieme come il primo del Duemila. Le proteste ereditavano la forma dei grandi cortei degli anni Settanta, senza poterne più essere contenuti. Tramutavano quella forma e quella forza in evento. Genova fu uno spettacolo ingrandito dai media fino a trasformarsi nella guerra annunciata. Forse all’origine della violenza – oltre alla smania cilena della destra appena insediata al governo e di quella parte della polizia in attesa del via libera – ci fu anche l’incapacità generale di comprendere e governare con strumenti classici, novecenteschi – cariche, fumogeni e manganelli – qualcosa che già accadeva in un tempo nuovo. E che accadeva appunto come un rituale fondativo di massa che, in quanto tale, esigeva un pubblico, il sangue e la morte. A Genova nel luglio 2001, due mesi prima dell’11 settembre, la storia cominciò cioè ad accadere sotto forma di evento.

Il secondo aspetto che mi colpisce è che quella violenza, benché preparata e perfino corteggiata da mesi, esplose con un’accelerazione a cui non eravamo abituati, ma che presto avremmo dovuto imparare. Gli scontri di Genova non erano più inquadrati in una lotta di lunga durata, non era più una guerra di posizione fatta di avanzate e ritirate. Era un conflitto che esplodeva, come poi al World Trade Center, alla stazione di Atocha di Madrid, nella metropolitana di Londra, a Utoya in Norvegia, al Bataclan e nella redazione di Charlie Hebdo o sulla Promenade des Anglais di Nizza. Genova mostrò, per la prima volta, quanto è sottile la crosta della civiltà su cui tutti noi tranquillamente abitiamo e quanto poco ci voglia a mandarla in frantumi, ma mostrò anche che quella crosta assomiglia alla membrana di un rettile, perché si lacera e si riforma all’istante per permetterci di continuare a vivere facendo finta di niente. (Ed è lo stesso meccanismo di rimozione edonistica del trauma con cui reagiamo alla pandemia). Ma Genova mostrò anche che a rompere la civiltà e la democrazia, il nostro tranquillizzante ordine occidentale, non sono soltanto i black bloc e gli islamisti, sono anche le forze che quell’ordine dovrebbero difenderlo – i carabinieri di Stefano Cucchi, i poliziotti di Federico Aldrovandi, le guardie carcerarie di Santa Maria Capua Vetere – tutti quegli agenti dell’ordine che, se si sentono autorizzati dal potere e impunibili, sono pronti a picchiare a sangue e torturare, esattamente come nei regimi totalitari.

Il terzo insegnamento è che i manifestanti nella loro ingenuità avevano ragione e la politica torto. Per questo Genova non è ancora passata. I temi di oggi sono gli stessi per cui si protestava e di cui i potenti di allora, nella loro ubriacatura neolib e neocon, negavano l’esistenza: il legame tra globalizzazione e aumento delle disuguaglianze, i limiti alla grande finanza e, oggi, ai giganti digitali, il rischio ecologico che oggi comprende clima ed epidemie, l’urgenza di governare tempi di vita, lavoro e sonno con leggi diverse da quelle modellate per i modelli di produzione del Novecento. I manifestanti avevano ragione perché erano gli unici a guardare il presente e a cercare di immaginare il futuro, a esercitare uno sguardo che nelle democrazie digitali la politica non può più permettersi perché per mantenere il consenso deve schiacciare gli occhi sull’oggi, come un miope a cui abbiano rubato gli occhiali. 

Jules Michelet, il più grande storico francese dell’Ottocento, diceva che “ogni epoca sogna la seguente”. Genova fu l’ultima apparizione del Novecento, ma fu anche quel sogno. In quei giorni apparvero i nuovi media e annunciarono la loro egemonia nel racconto del presente. (La centralità di Genoa social forum e Indymedia non è casuale). Quei giorni stabilirono la grammatica con cui oggi si raccontano gli eventi storici. A quei tempi lavoravo per “Diario” di Enrico Deaglio. Il modo in cui raccontammo il G8 sul sito era già – ma per la prima volta – quello del live blogging. Ma soprattutto fummo inondati di foto e testimonianze in diretta. Proposi di farne un numero speciale che vendette centinaia di migliaia di copie e fu, credo, il primo giornale della storia a essere realizzato interamente dai lettori. Vent’anni dopo mi pare sia stato un presagio dei social network. Quelle foto annunciavano il video dell’omicidio di George Floyd a Minneapolis: annunciavano un tempo in cui il sangue versato non può più essere lavato, perché la moltiplicazione delle immagini lo appiccica sui muri in eterno, come alla Diaz. 

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