Edward Hopper, "I nottambuli", 1942. Olio su tela, Art Institute di Chicago (foto da Wikipedia)

Pezzi di città

UIgo Nespolo

Lampioni, vetrine, colonne per affissioni, marciapiedi, targhe, tombini. Non li guardiamo, distratti. Ma sono i dettagli a fare l’identità urbana

“O Zarathustra, qui c’è la grande città:
qui non hai nulla da cercare e tutto da perdere”.

Friedrich Nietzsche
“Così parlò Zarathustra”

 

Chissà se davvero riusciamo a ricordare momenti della nostra vita passata in cui abbiamo trovato tempo e interesse per interrogarci sulle nostre città, quelle in cui viviamo, e quelle degli altri, viste o immaginate. Forse non ci siamo mai posti la domanda principe: cos’è una città?, e che cos’è stata nel tempo e come sarà nel futuro? Quasi sempre ci siamo accontentati di viverla come inquilini passivi cercando di approfittare dei privilegi del vivere urbano ma anche pesantemente subendone le limitazioni, i vincoli, gli obblighi.

 

Le grandi metropoli contemporanee, in tempi più vicini a noi, mostrano chiaramente di aver tratto ispirazione teorica dalle visioni utopiche delle storiche avanguardie. Non si può non pensare a quella Città del desiderio in cui si incarnava il mito della velocità, del movimento e dell’efficienza. Il modello è la città futurista proposta e resa esplicita nel Manifesto del 1914 di Sant’Elia e pubblicato sulla rivista Lacerba il 1 agosto 1914, dove si dice tra l’altro che: “Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile ad un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca”.

 

Son parole che fanno eco ed esprimono la stessa forza, lo stesso sentimento delle due opere fondamentali di Umberto Boccioni: “La città che sale” e “La strada entra nella casa”. E’ la visionaria intuizione modernista della Città Nuova con i suoi temi diffusisi presto a livello planetario: movimento, verticalismo, città-macchina, luci sfolgoranti, rumori, efficienza, aggregazione. Di fatto proprio questi si riveleranno gli ingredienti utili ad accantonare o minimizzare il concetto di staticità urbana, il rigido geometrismo, la scontata armonia razionale sempre ricercata – almeno a livello teorico – nel concepire la composizione del tessuto urbano.

 

A sentire intanto Yvonne Farrell e Shelley McNamara, insignite recentemente del Pritzker Prize, parrebbe che quei modelli d’aggregazione che sono poi sostanza della città moderna, possano davvero essere già obsoleti o in netto declino e che ci si stia dirigendo verso la loro rapida dissoluzione fino alla totale scomparsa alla ricerca di un arcipelago di piccole isole abitative tendenti a riecheggiare il modello storico dei quartieri più umani e vivibili.

 

Intanto, l’avvento repentino e brutale della pandemia planetaria ha deformato armonia e sensibilità di cui si disponeva e ha modificato in modo inatteso la nostra percezione della realtà ponendoci questioni dalle risposte davvero molto incerte.

 

Chiusura e coprifuoco sono riusciti a rendere quasi spettrale il nostro paesaggio urbano, normalmente fatto di animazione e di vita da vivere, di movimento senza sosta e di colori e rumori eternamente variati. Per questo non pochi di noi hanno provato e patito la sensazione di vivere, come fatto inedito, il vuoto e lo sconforto di strade e piazze percorse al più da rare figure di esploratori urbani intenti forse a gustare il valore e ruolo di oggetti e luoghi del tutto sconosciuti.

 

La letteratura racconta come proprio la lettura della città, la lenta riscoperta dello spazio urbano, il vagabondare senza scopo per lasciarsi affascinare dagli incontri minimali e inconsueti abbia dato vita a una nuova e rara figura d’intellettuale, un misto di bohème e vagabondo, capace di percorre senza meta o ragione le strade per scrutare con occhi disincantati una realtà da sempre ignorata. Quel personaggio è davvero molto più di un semplice idle man-about-town, un ozioso in giro per la città.

 

Si tratta invece di un flâneur, uno che passeggia senza scopo per perdersi in strade e piazze a caccia del fascino che incontra tra microarchitetture e oggetti di decoro urbano. A sentire Walter Benjamin, titolatissimo flâneur, si ha l’idea dell’atteggiamento necessario – o indispensabile – per mettersi in marcia con lo spirito più idoneo. “Uscire di casa come si giungesse da un luogo lontano, scoprire il mondo in cui già si vive; cominciare la giornata come se si sbarcasse da una nave proveniente da Singapore e non si fosse mai visto il proprio zerbino ….”.

 

La città è il tema di un racconto da scrivere, proprio come farà Baudelaire quando dice di “inciampare sulle parole come sui ciottoli”. Quello del flâneur è in fondo un atto d’amore solitario, egli compie un percorso urbano che mai coincide con quello della moltitudine distratta, un gesto totalmente lontano dall’ondeggiare irruento e guidato del turista che s’accontenta in genere del risaputo, del già detto e spesso persino del già visto.

 

Niente Statue della Libertà, Tour Eiffel, Palazzo di Schönbrunn o Arc de Triomphe, il trionfo di una vita dinamicamente contemplativa, quella di un individuo che “ha qualcosa del dandy e qualcosa del bambino”, un occhio vergine come “un caleidoscopio dotato di coscienza”, l’atteggiamento vigile di qualcuno che inaugura una nuova modalità percettiva, un gesto intellettuale profondo ed intimo. Molto tribolati da non pochi mesi di forzata reclusione nei propri spazi casalinghi ci siamo adattati a vivere le nostre giornate, luci e ombre, lavoro, studio e svago, scordando, con tutta la tristezza immaginabile, l’animazione delle nostre città che ogni giorno ci apparivano sugli abusati schermi tv di casa quasi simulacri svuotati, privi della vivificante foule, quella folla svanita da strade e piazze, “folla un tempo formicolante di città piene di sogni”.

 

Sorta di scenario teatrale baudelairiano che, dopo aver per tanto tempo provato a evitare quasi con fastidio, rimpiangevamo ora nel ricordarne l’energia diffusa, la dinamicità e persino l’allegria e la vita. Costretti a uscire all’aperto in maniera quasi furtiva ci siamo trovati a riscoprire con non poca sorpresa quegli spazi che in genere avevamo vissuto sempre distrattamente, e scoperto con meraviglia elementi quasi ignoti dei quali per consuetudine ci eravamo circondati e serviti. Si può fingere di avere ritrovato una sensibilità sepolta, un interesse più intimo verso quel paesaggio urbano e verso tutte le sue microarchitetture e tutto quanto, con un termine orrendo, viene oggi definito arredo urbano.

 

Nel forzato vagabondaggio spesso quasi solitario ci si è ritrovati a scoprire una grande quantità di elementi minimali, lo stesso inatteso percorso che ci propone con maestria il bel libro di Vittorio Magnago Lampugnani, “Frammenti Urbani. I piccoli oggetti che raccontano le città”, recentemente edito da Bollati Boringhieri. Con grande competenza d’architetto e storico dell’urbanistica egli ci guida con fascino e con maestria in un viaggio fra panchine, tombini, semafori, paracarri, cestini per rifiuti, targhe stradali, marciapiedi, attraverso un’Europa nutrita di una profonda, differente, quanto curiosa microstoria urbana “densa di particolari esuberanti e inattesi”.

 

Anche la teoria ci può aiutare in questo viaggio che ha – non neghiamolo – del paradossale, ripartendo dalla ben nota – quanto malintesa – affermazione per la quale “Dio è nei dettagli”. E’ Gustave Flaubert che raccomandava di “far parlare le cose” e che in risposta alla domanda di Maupassant “Dunque Dio è morto?” rispondeva appunto “Dieu est dans les détails”. Aby Warburg, forse l’uomo che ha più influenzato in questo Secolo la storia dell’arte, ad Amburgo nel 1925 teorizza che proprio nei dettagli, ornamenti architettonici, microarchitetture cittadine, si magnifica il concetto flaubertiano, aggiungendo maliziosamente che però, allora, che anche il Diavolo è in quei dettagli. A lui si deve l’introduzione e l’uso consueto della frase di Flaubert nella cultura tedesca (Gott ist im detail). Sarà poi il grande architetto Mies van der Rohe, prototipo assoluto dei moderni archistar, a sintetizzare in due celebri frasi questo concetto tanto affascinante quando radicale. “Less is more”, autentico manifesto del minimalismo a venire e poi – naturalmente – “God is in the details”, ribaltando però il concetto espresso da Flaubert, lasciando intendere che proprio l’assenza di dettagli testimonia la non visibilità di Dio, la perfezione divina starebbe quindi proprio in quello sforzo di occultamento nella loro presenza nascosta. Il metodo adottato da Magnago Lampugnani nell’analisi molto attenta di microarchitetture, oggetti minimali, arredi urbani, racconta insieme alla fisionomia di una città, anche la sua unicità, la sua storia, il suo carattere, la sua vita passata, presente e forse persino futura.

 

Si tratta in realtà di un metodo analitico che ha molto da fare con quello inaugurato prima di metà Ottocento dallo storico dell’arte Giovanni Morelli per analizzare e attribuire la paternità alle opere d’arte, rifuggendo la consueta fallace e sbrigativa visione d’insieme, per dedicarsi all’analisi dei dettagli da scoprire nei particolari anatomici dei personaggi. Lobo dell’orecchio, contorno delle palpebre, lunghezza delle falangi, alla ricerca di quei motivi sigla che gli consentiranno ad esempio di attribuire a Giorgione, lungamente studiato, la Giuditta dell’Ermitage, la Venere di Dresda o il Ritratto Giustiniani.

 

Dentro la città troviamo allora “gli alberi con le loro griglie, poi monumenti, fontane, lampioni, orologi, panchine, dehors di bar e ristoranti, ombrelloni, tendoni e verande, targhe delle vie e dei numeri civici, semafori, buche delle lettere, cestini per i rifiuti, bidoni della spazzatura, contenitori per la sabbia, idranti, cassette postali e citofoni con i loro elenchi di nomi, paracarri, insegne pubblicitarie, segnaletica stradale, cartelli informativi, targhe commemorative, stalli per biciclette, muri spartifuoco, colonnine di soccorso, parchimetri, cassette elettriche, telecamere di sorveglianza”.

 

Una quantità infinita di oggetti progettati e costruiti nelle fogge più strane con intenti che non sempre (o assai raramente) riescono a mediare valori funzionali con accettabili risultati estetici. Inghiottiti dallo spazio urbano sfuggono al nostro interesse e si perdono nel flusso sempre più caotico delle nostre città, difficilmente trasformandosi in luoghi significativi, memorabili, a meno che non si sappia fare intervenire un nuovo valore simbolico, estetico, quello che soltanto arte, letteratura o cinema possono conferire. E’ proprio Magnago Lampugnani che ci ricorda di come Camille Pissarro abbia saputo dar valore, trasformando in elementi chiave delle sue opere pittoriche, alberi, lampioni, pilastri pubblicitari o le mitiche colonne Morris parte integrante del Boulevard Montmartre o Gustave Caillebotte nel suo “Le Boulevard vu d’en haut” siano “l’albero e la sua aiola, la panchina, il marciapiede con il suo cordone, la carreggiata lastricata in pietra”. L’autore cita anche Walter Ruttmann, grande sperimentatore dell’avanguardia cinematografica tedesca, con Hans Richter e il suo mitico “Die Sinfonie der Großstadt” (Berlino - “Sinfonia di una grande città”, 1927) e di quanto egli dia grande importanza proprio a lampioni, vetrine, colonne per affissioni, marciapiedi, tombini, quasi gli stessi oggetti che Carol Reed userà come elementi drammatici in alcune mitiche scene del film “Il terzo uomo” girato a Vienna nel 1949 con sceneggiatura di Graham Greene e interpretato da Joseph Cotten, Alida Valli, Orson Welles.

 

Tra gli innumerevoli frammenti urbani si può dire che il Monumento detenga un ruolo a sé e di tutto rispetto. Dall’originario concetto di testimonianza di una memoria storica, celebrazione di personaggi o eventi, le nostre città hanno ospitato ed ospitano opere di artisti con l’idea di promuovere il concetto di arte diffusa, di opera d’arte in quanto tale, decoro erudito fondamentale per un’acculturazione lontana dagli obbligati spazi museali. Angosce e sofferenze sono state sostanza dei mesi di lockdown e di certo nessuno – credo – abbia colto l’occasione di vivere e godere letterariamente lo svuotamento delle città. Impossibile ritrovare l’euforia e la gioia solitaria e la cultura del flâneur o le dirompenti teorie e pratiche situazioniste di Guy Debord nei suoi gesti e concetti di dérive e détournement e di quella psicogeografia che aveva fruttuose radici nella flânerie surrealista, libera deambulazione nello spazio urbano, ambienti che gli artisti vivevano come “labirinti del meraviglioso e dello sconosciuto”. Mai sapremo se davvero, nella solitudine e nel vuoto, anche noi come Debord saremmo stati capaci di dichiarare che “la formula per rovesciare il mondo non l’abbiamo trovata nei libri, ma vagabondando”.

 

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