A fine marzo c'è stato il primo concerto live a Barcellona, per un esperimento clinico con cinquemila persone (LaPresse)

E ora?

I nostalgici del lockdown

Simonetta Sciandivasci

Il super paese reale non vede l’ora di tornare ai concerti e agli aperitivi. Ma c’è una verità inconfessabile: il partito di quelli che era meglio starsene a casa un altro po’. Viaggio nella nuova stagione senza più scuse

L’ultima sera di coprifuoco alle dieci, in una Roma dei miracoli senza miracolati, Emma Ridolfini, piccola surfista decenne, ha attraversato via Condotti su uno skateboard. Bulgari, Gucci, Dior, infine Barcaccia. Intorno a lei non c’era nessuno, a parte tre di passaggio e suo padre che la filmava e che quando il video, da Instagram, è finito sul Corriere della Sera, ha detto: “Emma è un pesce, cavalca onde di due metri”. Qualcuno ha pensato, con riottosa nostalgia, ai video di pesci, cerbiatti, volpi, lupi e delfini, tutti non figurati, che l’anno scorso se la spassavano nei centri storici di molte città del mondo, megalopoli incluse. In nostra assenza, dicevamo, la natura si riprende il suo spazio. Il riottoso nostalgico, incerto sul felicitarsi per il ripristino della mondanità, dice ora: quando le ricapita, povera natura?

 

Qualcun altro, con soggiogante afflizione, pensa che di fare skateboard in via Condotti in prima serata, senza inciampare in autobus di giapponesi, scolaresche siciliane, innamorati in fila per le caldarroste, russe, dervishers turners e delinquenti (ci sono anche i delinquenti), quando ci ricapita?

 

Sopra le nuvole c’è il sereno, sì, ma siamo sicuri di volercelo andare a prendere? Stiamo bene qui, seduti in riva al fosso, al bigio, tra pandemia e realtà, forse che sì forse che no, esausti ma sollevati dalle incombenze relazionali e mondane. L’anno scorso, di questi tempi, affrontavamo la prima grande riapertura, ed eravamo scissi, ciascuno diviso tra il desiderio di riprendersi tutto anche quello che non aveva mai avuto e il terrore di infettarsi, più nobilmente detto senso del dovere verso il prossimo. Ideavamo gli assistenti civici, li incaricavamo di separarci, redarguirci, ricordarci di rispettare il distanziamento, l’igiene, il contingentamento, perché eravamo certi che la fine dell’isolamento avrebbe liberato l’animale sociale che ci portiamo dentro. Naturalmente, temevamo anche le sindromi post traumatiche, di vecchio e nuovo conio, ma il calo dei contagi aveva poi cancellato tutto, eravamo diventati tutti cicale, tutti, a parte il professor Galli e, in misura minore, il ministro Roberto Speranza, molto impegnato a scrivere un libro che, il giorno della sua pubblicazione, è stato ritirato dal commercio poiché diceva che saremmo guariti e invece, ma tu guarda che iella, il Covid era tornato a imperversare – come ampiamente previsto.

 

Già allora, agli inizi della prima riapertura, alcuni di noi manifestavano un sottile dispiacere: avrebbero volentieri trascorso un altro mesetto in clausura, almeno per rimettersi in sesto, dimagrire, esercitarsi a parlare con il prossimo guardandolo negli occhi suoi e non nei propri, su Zoom. Anche costoro, in estate, si erano poi tacitati, anche se avevano un po’ rimproverato gli amici in vacanza in Grecia e in Sardegna – loro erano rimasti nel quartiere Trieste, come molte altre volte, ma stavolta con la scusa della responsabilità sociale, facendosi celiare da amici senz’altro destri che così andavano apostrofandoli: “Menagramo!” (“Cassandra, se mai”, essi prontamente rispondevano).

 

Quando, all’inizio della settimana scorsa, il presidente Mario Draghi ha annunciato il piano delle riaperture, graduale ma inesorabile, la reazione di Twitter è stata pressoché unanime: un sospiratissimo sob, in luogo del barbarico Yawp che, fino a ieri, anche se a fasi alterne, avevamo annunciato. Dicevamo: apriteci, per carità, ah, vedrete, quando ci aprirete, che cosa faremo, i bagni di notte nelle fontane, e nel mare, e nell’oceano Atlantico, e nell’acquedotto pugliese, e nelle piscine del Coni; i concerti a tutti gli angoli delle strade, suonandoci le mani, le gambe, i piedi, la faccia; le corse in vespa a fari spenti nella notte; le cene in dieci venti trenta, al chiuso, nei grottini, nelle fraschette, nei sotterranei, nelle catacombe; le spaghettate di mezzanotte, i cornetti prima dell’alba, aurora sogna, le bische clandestine, i night club, le balere, la pole dance, il gioco della bottiglia (in pandemia peggio della roulette russa).

 

Ricordate? Sbocciavano le viole con le nostre parole.

 

La vita pensata ci dava grande soddisfazione rispetto non solamente al futuro, ma pure al passato: ci sembrava di aver sempre vissuto da vagabondi incorreggibili, creduloni romantici, briganti della notte. Eravamo entrati dentro un videogame, ci era venuta la sindrome (ahia) di Bela Lugosi, convintosi d’essere Dracula, avendolo recitato tanto a lungo. Credevamo, in sostanza, fino a ieri, nel decolorarsi di regioni e stagioni, d’esser vivi come in certe foto di Instagram sembra che si viva: divertendoci, andando incontro al mondo.

 

Fino a prima dell’inizio della fine delle restrizioni, ci insolentivamo quando qualcuno sottovalutava la portata psicologica del non poter cenare all’una di notte in via del Governo vecchio. L’anno scorso Giuseppe Conte ci diceva che era dovere civico starsene a casa il più possibile, non esagerare negli incontri e negli abbracci, adesso per il bene di tutti dobbiamo tornare al cinema, al bar, al ristorante, alla poligamia. Guia Soncini ha scritto su Linkiesta: “Persino dire che oggi col cazzo che usciresti di nascosto per andare in discoteca è offensivo: e ai proprietari delle discoteche impoveriti non ci pensi? Persino dire che alle otto sei già in pigiama è irrispettoso: e agli stilisti di abiti di sera sull’orlo del fallimento non ci pensi? Persino il mio culone è oltraggioso, lancia un messaggio menefreghista nei confronti delle palestre”.

 

Eppure, nonostante tutto questo civismo, martedì sera, gli stessi che su Twitter per mesi avevano parlato di insopprimibile desiderio di socialità e dovere di mettere in circolo l’amore attraverso l’economia, gli Umberto Simonetta e gli Oscar Farinetti hanno manifestato stizza, disagio, disappunto. Era tutto un: adesso dovremo uscire sul serio, far tardi, andare a cena fuori, ai matrimoni, alle pizze di fine anno (le pizzate, santo cielo, le pizzate), ai vernissage, ai saggi, alle recite, ai compleanni, alle feste per pochi intimi dove è intimo anche il portiere del palazzo di fronte. Era tutto un preoccuparsi per aver esaurito le scuse: dopo che, l’anno scorso, sentendoci in punto di morte, avevamo ammesso, durante il lockdown, che di buono c’era che non dovevamo inventare frottole per non andare alle feste, e tutte le scuse le avevamo tirate fuori, certi che non le avremmo più usate, ecco, tutta quella sincerità ci si è improvvisamente ritorta contro. Cosa ci inventeremo adesso? Come ci sottrarremo al doppio compleanno dei figli dei nostri amici, che son due anni che aspettano di tagliare la torta dei loro 5 e poi 6 anni al nostro cospetto? Attenzione perché a luglio saremo tutti bersagliati dalle feste di recupero: chi ha una seconda casa in Azerbaijan, ne approfitti, ci si rechi, lì non dovrebbe andare nemmeno “trova il mio iPhone”.

 

E insomma si era lì, ieri l’altro, a confessare di non sentirsi pronti, e francamente nemmeno certi che fosse sicuro questo ritorno al prima, per quanto graduale, dopotutto i numeri non sono migliorati in modo così significativo, non hai letto Lancet, e poi comunque chi lo sa, i numeri sono mobili e volubili, sono ragazze del secolo scorso, i numeri sono Renata Polverini, oggi qui domani là, e va bene che i vaccini sono efficaci ma contro i vaccini giocano le varianti, e metti che finisci tra le braccia di un variato mentre sei in attesa del vaccino, attesa che produce in te una fallacia della ragione che ti fa sentire protetta, praticamente già vaccinata, ché l’attesa del vaccino è essa stessa il vaccino, e fai un qualcosa di sconsiderato, fai che lo baci, fai che gli dai la mano e dopo ti scordi di lavartela, neanche fossimo nel 1999.

 

Abbiamo tutti uno e più amici che ci hanno detto queste cose. Abbiamo tutti una e più amiche alle quali abbiamo detto queste cose. Con tutti abbiamo convenuto sul fatto che, poi, c’è un dato psicologico, un languore, un ovosodo in gola che non va né in su né in giù, ed è la nostra mancanza di voglia di tornare alle forzature di ieri: i reggiseni, le convenzioni, le feste, gli assembramenti, i dialoghi, la precedenza, la fila, i posti di fianco al nostro occupati non da un innocuo, muto sacchetto di prima igienizzazione, ma da un essere umano, uno sconosciuto con lo smartphone pieno di fotografie di figli che muore dalla voglia di farci vedere. A Roma questa settimana sono tornati persino i controllori sugli autobus. Perbacco! L’amministratore delegato dell’Atac, Mottura, ha detto che finora se ne sono stati nei piazzali, a terra, a garantire la sicurezza e vigilare sugli assembrandi, ma adesso è il momento di tornare in corsa, ci sono molti soldi da recuperare, e immaginate allora questi enormi autobus nuovamente stracolmi di intrepidi viandanti, monitorati da “colleghi verificatori” assetati di multe, di ritorno alla normalità, ovverosia alla sfiducia verso il prossimo.

 

Scene da Dopoguerra, da “L’Orologio” di Carlo Levi, quando raccontava che sui tram di Roma c’erano le ragazze con le calze verdi dei militari e sembravano ramarri, attaccate a questi giganteschi mezzi di trasporto che traboccavano di sopravvissuti. Ma chi ce lo fa fare? Per carità, fateci stare a casa ancora un altro po’, dateci una scusa, mettete il coprifuoco alle 22.15, un altro paio di mesi e ci abitueremo tutti a cenare all’ora del tè, pare faccia anche bene alla pelle e diminuisca la ritenzione idrica. Dei traumi da reclusione, quelli con nomi inglesi e talvolta svedesi – ne abbiamo contati un paio per ogni ondata –, nemmeno l’ombra. Trasudiamo noluntas. Rivorremmo il lockdown, lo diciamo sottovoce alla barista estone del nostro bar cinese, dove peraltro fanno i cornetti migliori di Roma, e lei ci risponde: ma che sei scema, stellina?

Prego?

 

Sei pazza, suonata, rintronata, ma non vedi che bella luce c’è fuori, non senti la primavera, la scossa dell’estate, la bella stagione, la gioia, gli amici che ritornano, che splendida serata, non hai prenotato già al ristorante la prima cena senza coprifuoco, la prima festa di luglio, la prima notte sotto le stelle al Pincio? Arretriamo, circospetti, circospette. Non possiamo crederci, anche stavolta siamo caduti nella bolla, e anche stavolta la bolla nulla ha a che fare con le vite degli altri, quelli che si sbranano, si vanno a cercare, guidano piano con qualcosa dentro al cuore e per essere felici s’accontentano di una domenica bestiale, magari al mare oppure anche al centro commerciale, però assieme ad altri, quelli che noi, dalla bolla, guardiamo con disprezzo, certi che la loro fretta di vivere provocherà assembramenti che ritarderanno di un altro anno la nostra conquista dello spazio, la nostra ascesa sociale, il nostro corso di tango, la laurea di nostro nipote, la presentazione in presenza di un libro su cui abbiamo letto moltissimi tweet entusiasti.

 

Pigi Battista ha detto una volta a questo giornale che non tollerava quelli che non solo trovavano il lato positivo della reclusione, ma la elogiavano in toto, quelli che dicevano che in fondo eravamo solitari anche prima, mal sopportavamo il prossimo anche prima, ci tappavamo in casa anche prima, e lo dicevano con quel bizzarro orgoglio che hanno i sinceri, i trasparenti, quelli che pensano che dire la verità significhi non radersi le ascelle e dire cosa mangiano e quanto pesano. Li aveva definiti stronzi sociopatici. Non ha cambiato idea. Ci dice: “Mentre nella nostra stupida bolla di malmostosi impauriti da tutto parliamo di traumi, paura, blocchi, e diciamo che sotto sotto si sta meglio a casa, che si sta da sempre meglio a casa, milioni di persone, fuori, si riuniscono, fanno l’aperitivo, si baciano, vivono. Si assembrano? Sì, si assembrano. Passo di fianco a loro, li guardo, mi commuovo e vorrei abbracciarli, o almeno dire loro, come all’inizio di una poesia de I Fiori del Male di Baudelaire: mon frere! Vorrei dire loro: grazie, perché fate quello che io non faccio dal momento che sono anziano e, soprattutto, sono un vigliacco. È ai prudenti pensatori che non va di tornare a vivere, è a loro che piace starsene a casa, perché ne hanno una agevole e bellissima, e noi crediamo che siano tutti solo perché scrivono su Twitter o sui giornali. È lo stesso meccanismo che ci fa pensare che un programma televisivo di successo sia quello di cui si parla sui social, e intigniamo su questo anche se poi verifichiamo che l’audience di quel programma è 1,2 per cento. Il lockdown è stato una magnificente realizzazione del sogno dell’estrema sinistra: chiudere un’intera società con il lucchetto. Solo che la gente quel lucchetto lo sta facendo saltare, e dovremmo essere grati, anziché storcere il naso e chiamare prudenza la sociopatia: è sociopatia. Legittima, naturalmente. Ho visto l’altro giorno la partita Atalanta-Juve, le persone sugli spalti mi sembravano eroi moderni, avanguardia della liberazione, non un volto torvo. Fratelli, meno male che ci siete voi”.

 

Sempre lì stiamo. Popolo contro élite. A Brera si preferisce starsene sul divano come si faceva da prima, nel 2019 e nel 2009, mentre a Busto Arstizio si comprano gli zampironi per le grigliate estive. I concerti dei pochi coraggiosi che li hanno annunciati, hanno registrato il sold out in pochi minuti, e va bene che i posti delle arene sono dimezzati, ma. Ma. Il sentimento popolare nasce da meccaniche divine e va ad assembrarsi, pur nel rispetto delle vigenti normative anti Covid. Il giornalista, invece, se ne resta a casa, come al solito convincendosi d’esser misura del mondo e quindi che anche il vicino di casa vorrebbe fare come lui, se non lo fa è perché ha sposato una bifolca, una che lo porta a fare i picnic.

 

Ne usciremo come eravamo: schifatori della vita da un lato, suoi grezzi consumatori dall’altra. Gli uni contro gli altri armati, i primi senza più figli senza più voglie, gli altri con la maglietta di Maradona macchiata di succo di frutta. I primi, all’ossessiva ricerca di un centro di giustificazioni permanente, i secondi in fila verso Ostia Lido. Ci dice Ester Viola, scrittrice e avvocata nostra: “Ho un senso di normale e un senso di tutto uguale. E mi piace. Non vedo mondi nuovi ma nemmeno il vecchio mondo come lo conoscevo. Siamo affondati nei social, ultimamente. Forse troppo, ma non so definire il troppo. È l’ora di riemergere, sembriamo api pazze. Però trovo spassoso lo scollamento: c’è un’Italia (che pensa di essere Italia) che parla convulsamente di legge Zan e un’altra Italia, del tutto ignara, in provincia di Avellino, che si sta chiedendo se la festa di San Gerardo il diciotto d’agosto quest’anno si può fare oppure no”. Ogni amore e gloria agli amici della provincia di Avellino.

 

La settimana scorsa, nella sua newsletter UltraViolet, Viola scriveva del Grande Minimizzatore, “il primo medico che dice finitela voi e le vostre lagnette su quest’anno tragico, smettete, le sicurissime conseguenze psicologiche della pandemia non esistono, sono altissime le possibilità che non ci prenda proprio un bel niente”. Riprendeva uno studio che dava conto di come il 90 per cento degli americani che ha avuto un’esperienza traumatica non abbia poi sviluppato disturbi cronici e, anzi, se ne sia liberato senza nemmeno troppo battagliare. Ma in quel 90 per cento dev’esserci senz’altro un 89 per cento di rozzi popolani, figurarsi. Una poesia di Sandro Penna fa così: “Forse è meglio soffrire che godere. O forse tutto è uguale. Anche la neve è più bella del sole, ma l’amore…”. Ilaria Gaspari, filosofa e scrittrice, pone questi versi a chiusura di un capitolo importante del suo ultimo libro, “La vita segreta delle emozioni”. E’ il capitolo sul rimpianto e sul rimorso.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.