Contro lo scemo digitale

Enrico Brizzi

Una malriposta aspirazione alla purezza, un “califfato delle buone intenzioni”. Altro che democrazia delle opinioni: il famigerato “popolo del web” ama le morali rassicuranti e le vendette più atroci, le capriole dei gattini e i vaffanculo. Idee per uscire dalla gabbia del nuovo conformismo

Una doverosa premessa: la dittatura del politicamente corretto non esiste, se non nella testa di chi ha la coda di paglia. Sostenere che in Italia le donne hanno le stesse opportunità lavorative degli uomini, che una famiglia di immigrati può costruire la propria fortuna tanto quanto gli storici notai o farmacisti del paese, o che ormai un ragazzo gay non dovrebbe avere alcuna remora a fare outing non è soltanto falso, è anche una dimostrazione più o meno consapevole di accanimento reazionario contro le donne che s’industriano per lavorare e provvedere ai figli, contro i “nuovi italiani” e contro la sensibilità di tanti giovani omosessuali. Ben vengano dunque i provvedimenti tesi a tutelare chiunque si trova, per un motivo o per l’altro, sfavorito, e se ne vada a quel paese la retorica di chi ventila strumentalmente una presunta egemonia dei deboli.


Come tutte le rivoluzioni, però, anche quelle dei costumi mietono le loro vittime, e rischiano di avvilupparsi su se stesse come il mitico uroboro divorando, se non i propri figli, perlomeno la propria coda. Gli effetti sono gli occhi di tutti: se la giusta istanza tesa a una equa rappresentazione di donne, minoranze etniche e fondate sulle identità sessuali non produce un dialogo virtuoso ma si trasforma in una isterica gara a chi è più puro, dietro l’angolo c’è il Terrore: ghigliottine per i ghigliottinatori, processi politici per i padri della rivoluzione, anatemi e lanci di  pomodori marci per chi sino a dieci minuti prima vantava un’immacolata patente di virtù.

 


Gli oligarchi e i peones

Sull’ideale della purezza in sé ci sarebbe parecchio da dire. Finché il suo posto è nelle aule di catechismo e nelle cerimonie di devozione mariana, lo si prende per quello che è. Nel dibattito politico, invece, l’aspirazione alla purezza è un punto fondativo dei totalitarismi, destinato a galvanizzare i rancorosi, esaltare i semplici, sterminare i dissenzienti a mo’ di capro espiatorio e condurre i Paesi alla rovina.


Cos’ha a che fare l’aspirazione alla purezza con l’inclusione, il riconoscimento delle ragioni altrui, la polifonia di voci che ci si attende da una società liberale, tollerante, multiculturale e democratica? Proprio nulla, anzi è il suo contrario.  


Ben lo si vede nella dimensione dei social, dove si allenano come opinionisti le moltitudini dei boomer istruiti e scontenti, e di qualunque argomento si dibatta, il bilancio finale premia a suon di grandi numeri le posizioni più retoriche e enragé,


Facebook e i suoi fratelli erano stati salutati dagli ottimisti come l’avvento di un’autentica democrazia delle opinioni, ma Eco ci aveva visto benissimo nel denunciarne la pericolosità per l’intelligenza collettiva, e ormai il re è nudo: il “governo di tutti” ha preso la forma di una ipocrita e corrotta oligarchia nella quale un pugno di nomi dettano l’agenda, suggeriscono le tendenze, danno l’impressione, addirittura, di profetizzare le mode.

 
I seguaci, come da ragione sociale, seguono a testa bassa e senza troppi guizzi, simili a una malinconica e disciplinata fila di peones diretti in città all’alba del giorno del mercato, e per qualche malevolo prodigio ognuno riesce a dare il peggio di sé: persone inclini a una salubre spensieratezza appaiono gravi e permalose, gaudenti notori si danno un tono da anacoreti, e zia Wanda, della quale in famiglia sono indiscusse la cultura e le alte qualità umane, fa la parte della matta perché continua a scambiare la bacheca pubblica dei nipoti per una messaggeria privata, imbarazzando un po’ tutti con i suoi repentini e polizieschi “dove sei adesso?” conditi di vezzeggiativi.

 


Il complesso dell’ermellino


Dal momento che il medium condiziona il messaggio, dovremmo accogliere con serenità l’evidenza che qualcuno è più adatto alla comunicazione via social e qualcun altro stenta a trovarvisi a proprio agio. Gianni Morandi, tanto per dire, è bravissimo. Una volta si è preso persino la briga di rispondere a zia Wanda, che lo adora e ogni tanto bersaglia anche lui, precisa e sprofondata nella penombra come un guerriero indio armato di cerbottana, con i suoi temibili interrogativi. Non tutte le stelle social, tuttavia, sono miti e sorridenti come il buon Gianni.

 

Ognuno di noi, anzi, ne saprebbe nominare almeno una dozzina pronte ad alternare momenti di cordiale intimità testimoniati da foto impeccabili, fiacche collezioni di luoghi comuni e solenni momenti di indignazione civile all’insegna del “sapete che sono tanto buono e tanto caro, ma quanno ce vo’, ce vo’”. Segue accorato supporto a una causa, quasi sempre selezionata fra le tendenze del momento su Twitter.


Per chi non gode di una fama indipendente dai social, sono questi i modelli più facili da studiare e imitare.  Ben presto, però, ci si rende conto che la magia dell’algoritmo somiglia pericolosamente al determinismo sociale nelle società della decadenza: chi è già ricco accumula facilmente capitali ulteriori, e chi non lo è si rassegna al fatto che non lo diverrà mai. Fuori di metafora: i post più visualizzati diventano anche i più visibili agli occhi di chi ne era sin lì ignaro, e noialtri peones si vive rassegnati all’idea che laggiù, nei quartieri bene della ciudad, conteranno sempre le stesse famiglie.


L’arma, però, è a doppio taglio, ché come ha scritto René Girard l’invidiata condizione del re e quella derelitta del capro espiatorio finiscono per radunarsi nella stessa persona: la pena per i professionisti delle buone intenzioni che abbassano la guardia è direttamente il linciaggio. L’altalena dei like e dei cuoricini, infatti, finisce per colpire al volto l’incauto manovratore non appena si distrae un attimo e scrive un lacrimoso “post di pancia”, con conseguente imbarazzo di tutti i compagnucci della parrocchietta che gli hanno inopportunamente concesso il proprio credito, strizzato l’occhio, solleticato la vanità.


Il sonno del coraggio genera mostri: proprio chi si riempie la bocca di parole impegnative circa la morale pubblica e i diritti civili, soffre più di tutti del complesso dell’ermellino, che gli antichi volevano titubante di fronte ai rivi paludosi in quanto temeva di sporcare la sua nobile pelliccia.


Ma che mondo sarebbe quello in cui al coraggio delle proprie idee si sostituisce la paranoia di insozzarsi, e l’incubo principe degli opinionisti alla ricerca di consenso è quello di pestare una cacca quasi fosse una tagliola, e venire di conseguenza redarguiti dai seguaci di ieri, trasformati negli sgherri senza volto del “califfato delle buone intenzioni”?


Già lo sappiamo, che mondo sarebbe, perché è giustappunto il nostro, consegnato al conformismo, dove qualunque beota dotato di uno smartphone è libero di scatenare le sue strumentali guerre sante contro chi azzardi un’opinione fuori dalle righe, o semplicemente gli stia antipatico.


Lo spirito dei tempi non danza lieve nell’aurora delle avanguardie né cammina saldo sulle orme degli antichi: si ispira all’andirivieni dello schizo, premia da una parte le intemerate a favore dei diritti civili, dall’altra gratifica la coscienza putrescente di chi frequenta le pagine dei cantanti per dire che cantano male, di chi gode a vendicarsi con una feroce stroncatura a un libro su Amazon come a un ristorante su TripAdvisor. (Vogliamo forse negare ai putrescenti la libertà di putrefarsi? O quella di parola? Giammai! Ci batteremo anzi fino alla morte, come ci insegnarono i nostri illuminati maggiori, perché appestino l’aria a piacimento con le loro pregiate opinioni. Semplicemente, ci riserviamo il diritto di considerarle per quello che sono: argomenti rilevanti quanto la puzzetta sganciata da un okapi nel bel mezzo di una savana a molte migliaia di chilometri di distanza. E dal momento che quelle altre flatulenze, più vicine e umane, ci disturbano le nari, vorremmo spingerci senza mettere nessuno in imbarazzo ad aprire le finestre).

 

 
Shitstorm su Gadda, Pasolini e Morante


In una nostra personale ucronia ci piace immaginarlo, questo proverbiale scemo, prendere i panni della maestrina dalla penna rossa e scrivere in maiuscole sulla pagina Facebook di Carlo Emilio Gadda che “Il pasticciaccio” l’ha deluso, ché non si costruisce a quel modo un romanzo poliziesco appena decente, ed è discriminatorio verso Roma e i romani.


Un minuto dopo, eccolo contestare via Twitter Pasolini e accusarlo delle peggio cose – supportando i suoi sgrammaticati argomenti con un feroce hashtag ad hoc – per poi passare su Instagram a dare lezioni a Elsa Morante, rea di avere pubblicato una foto che egli trova per motivi suoi inopportuna, o semplicemente fuori fuoco.


Praticamente un incubo a occhi aperti, ché allo scemo demiurgo potrebbero seguire moltitudini di scemi gregari sotto pseudonimo, pronti a ingrossare la schiera di chi non si limita a parlare di ciò che sa, ma reputa la propria opinione rilevante su qualsiasi argomento, l’apporto della propria presenza irrinunciabile, il proprio sasso meritevole di prender parte a qualsiasi lapidazione, il proprio cordoglio prezioso per commemorare la scomparsa di un genio, un maestro, una donna eccezionale di cui sino a un minuto prima ignorava l’essenziale.


E guai a un Arbasino che ridicolizza le casalinghe e Voghera, guai a Natalia Ginzburg che se la prende con l’ipocrisia di certe perifrasi goffe come “non vedente”, guai a Pavese che scrive delle donne “quelle che separano”, guai a Rigoni Stern che andava a caccia, e guai a noi perché il presente elenco non rispetta le quote rosa.


Amiamo pensare che Gadda, Pasolini, Morante e compagnia avrebbero tirato dritto per la loro strada, limitandosi a ignorare la canea, ma così facendo eludiamo il problema.


Realisticamente, se pure loro avessero riservato alle obiezioni del nostro amico scemo una semplice scrollata di spalle, se ne sarebbero preoccupati alquanto i loro agenti letterari, gli editori e i responsabili dei relativi uffici stampa.


Ecco allora che il problema appare nella sua vera, minacciosa, grandezza: riguarda lo sgretolamento del principio di auctoritas ai tempi del populismo, l’intolleranza feroce che si traveste talora da carezza e talaltra da micidiale diretto al volto, e il ruolo che stampa ed editoria sono chiamate a svolgere oggi nella vita del Paese.


Si possono scrivere in autentica libertà corsivi, articolesse e terze pagine, racconti e romanzi, se il sistema della cultura, invece di rivendicare la propria autonomia ed alterità, si fa prendere dal complesso dell’ermellino?


Cosa resta del giornalismo e della narrativa se si umiliano ad andare a ruota dei social, scimmiottandone l’estrema semplificazione e la ricerca di visibilità a buon mercato?


Come si può scrivere o dibattere a cuor leggero se si coltiva un sacro terrore per i processi sommari, condotti da magistrati anonimi e vergini di studi in giurisprudenza, ma sicurissimi di cos’è buono e cos’è giusto, di quale grana dev’essere l’ironia altrui, o qual è il punto di vista corretto da adottare in un testo narrativo? 

 

Davvero vogliamo adattarci al precipizio del gusto medio, che pretende romanzi politicamente corretti come fossero saggi di scienze sociali, capaci di mantenersi sotto le duecento pagine e sincopati da frequentissime cesure di capitolo per dare l’idea al lettore “di voltare pagina più spesso”?


Sul serio dobbiamo preoccuparci dell’altalenante giudizio di chi un giorno tuona contro la satira dissacrante e di cattivo gusto contro le minoranze, e l’indomani – senza evidentemente avere mai preso in mano una copia di Charlie Hebdo, sarcasmo al vetriolo diffuso a tutto campo contro Cristiani, Ebrei e Musulmani, uomini e donne, patriarchi dalla sicumera littoria e isteriche raddrizzatorti – inalbera come immagine-profilo un disco nero con la scritta “Je suis Charlie”, sul quale basta un occhio appena attento per leggere “Je suis conformiste”?


Le parole sono importanti


Quest’anno si celebra il settecentenario di Dante, che non fu solo un visionario o un eccellente compositore di terzine, ma anche un testardo anticonformista, già a partire dalla scelta della lingua. Viene spontaneo domandarsi cosa resta oggi del nobilissimo italiano volgare, il nostro inesauribile patrimonio comune, se anche chi lavora in ambito culturale ne ripudia la ricchezza di sfumature e la musicalità nell’illusione di apparire più consapevole e al passo coi tempi. 
Nel mondo reale, quello dove ciascuno risponde alla propria coscienza e non a un tribunale autoproclamato, esiste una libertà che sui social si è persa da tempo.
Ad esempio si può essere sinceramente a favore dei diritti altrui eppure trovare cacofonica la parola “omobitransfobia”, e sorridere di chi si affretta a farla propria con un fugace taglia-e-incolla per risultare à la page, anzi “smart”.


Là fuori è ancora consentito apprezzare la capacità di resistere ai colpi e risollevarsi dopo essere caduti senza per forza uniformarsi alla moda di chiamarla “resilienza”. E si può deridere senza sensi di colpa l’affettato sproloquio anglo-italico di un amico, nato senza merito né colpa in una frazione fuori mano di – si fa per dire – Gallarate, che ha avuto la fortuna di studiare, si è trasferito in un loft a NoLo e ora fa l’arbiter elegantiarum metropolitano, riempiendosi la bocca di “schedulare”, “splittare” e “lovvare”, pur riconoscendo nel giorno del Dantedì che l’Alighieri è stato un grande, o meglio un “king”. 


Concedere il timone ai conformisti significa prestare il fianco a ogni genere di processo alle intenzioni, mettere al bando il sarcasmo, negare la possibilità stessa di una narrazione onesta.


A forza di sottostare con un sospiro rassegnato a ogni diktat, a forza di non volersi sporcare, si arriva all’afasia, agli asterischi impiegati come desinenze, all’adozione di nuovi impronunciabili fonemi che non nascono dall’uso comune ma sono imposti dalle accademie.


Scendere questa china comporta andare verso l’ombra, e una volta raggiunto il fondovalle non resterà che una possibilità, quella di commissionare direttamente all’algoritmo i nuovi, virtuosi, romanzi della purezza, conformi in tutto e per tutto ai dettami ideologici promulgati da una élite e vidimati dal “popolo del web”, il mostruoso leviatano dal pensiero orizzontale che ama le morali rassicuranti e le vendette più atroci, le dolci capriole dei gattini e i vaffanculo, le ricette della torta di pere vegana, le liste di proscrizione e i pogrom.


Tornare al mondo


Per vivere bene insieme sarebbe opportuno prendere i social come un gioco o un’opportunità, non come un modello al quale uniformare la poesia e la scienza, l’etica e il dibattito pubblico.


Tocca aprirle un po’, queste finestre, per diradare le flatulenze delle certezze altrui; potremmo addirittura uscire per strada, ora che si può fare di nuovo, e dopo questa sbornia di intolleranza e moralismo, imparare a vivere daccapo in maniera civile, chiamare le cose col proprio nome, scegliere itinerari meno battuti.
Per sopravvivere alla tempesta ci è toccato un castigo grande, per tornare al mondo basterà una penitenza piccola: resistere all’istinto di esprimerci su tutto, rendere più precise e meditate le parole alle quali deleghiamo le nostre opinioni e allenarci daccapo ad ascoltare quelle del prossimo, vincendo la tentazione di zittirlo.


Mettersi nei panni degli altri – pensarsi come un “noi”, ovvero una comunità, anziché sotto forma di un arcipelago di isole ciascuna dotata del proprio miope sistema di leggi – è tutt’altra disciplina rispetto all’accogliere con malcelata stizza le storie raccontate da una prospettiva che non coincide con la nostra o, peggio, industriarsi per ridicolizzarle.


Per raccontare qualcosa di fertile serve il coraggio di scrivere, pubblicare e recensire storie narrate in piena libertà, senza l’ansia di correre dietro all’ultima voga né la paura di sentirsi apostrofare per qualcosa che nulla ha a che fare con la narrativa. E, con ancor maggiore urgenza, serve leggere senza pregiudizi, dimenticando i dogmatismi e il narcisismo travestito da virtù propugnato dai nevrotici sacerdoti dell’ego, i viziatelli privi di ironia e misura che tuonano in ciabatte dalle loro stanze chiuse e vuote.


Non possono essere i maestri di nessuno, i paurosi che per spegnere la loro raffinata “ansietta” cercano solo conferme circa la propria straordinaria unicità e vedono gli altri non come compagni di avventura o di naufragio, ma come carnefici da colpevolizzare, ostacoli alla propria gratificazione personale, barbari dei quali deridere i balbettii, in ultima analisi esseri impuri e inferiori.
 

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