La vignetta di Makkox

Ritrovare il gusto del futuro

Giuseppe De Filippi

Da marzo a marzo: sì, ancora virus, restrizioni e recessione. Ma abbiamo resistito: con una  tenuta sociale inaspettata, con il sistema manifatturiero che ha retto all’impensabile. Abbiamo le energie per ripartire, per guardare (come Draghi) con ottimismo al domani. Indagine su una nuova Italia

Recessioni e poi riprese ne abbiamo viste, anche più volte nell’arco della vita di una persona adulta. Questa volta la stiamo aspettando la ripresa, ma stentiamo a scrivere quella parola, abusata di suo, per l’usura che portano le promesse e le dichiarazioni del gioco politico, e comunque un po’ troppo toccata dalla freddezza dei manuali di economia. Questa volta la parola non c’è. Non è neppure corretto parlare di ricostruzione, perché quella era veramente una cosa da dopoguerra, e stavolta c’è stato quasi tutto ma non la guerra. Lasciamo stare quell’altra che comincia per “r”, e che comunque avrebbe semmai a che fare con la capacità di mantenere la capacità operativa, anche in tempi avversi. E poi di ripresa, anche trovando la parola giusta, cerchiamo ancora di parlarne il minimo possibile.

 

Perché stiamo ancora (per il calendario ancora un paio di giorni) nel primo trimestre del 2021, e ci sembra un po’ un imbucato, un infiltrato nell’anno, appunto, della ripresa. Che ci fanno qui ancora questi tre mesi di restrizioni, recessione, distanza, isolamento, e ancora di paura, morte, depressione. Solo parlarne, pensare al tempo che passa ci fa venire i nervi. Tutte le previsioni dicono che vivremo un anno a due facce, dal trimestre infiltrato al trimestre di passaggio (ma con limitazioni ancora presenti), e poi una botta di crescita improvvisa del lavoro, dei consumi, di quell’economia dei servizi che è pressoché sparita e tornerà senza darci neanche il modo di capirlo. La gran parte di noi non ha mai sperimentato nella vita qualcosa che assomigli alla crescita economica concentrata in pochi mesi che ci attende. L’esperienza potrebbe essere inebriante e anche, però, straniante. Non conta che si andrà a ricostituire pil perso. In questo caso le statistiche non dicono e non direbbero la verità, perché interi settori usciranno fuori reinventati, e così, per capirci, uno (una volta ancora) non vale e non varrà uno, un punto di pil ripreso non avrà quasi nulla in comune col punto di pil pre pandemia. Non saremo migliori, che è una sciocchezza sintetica, ma cambiati nel modo di operare. 

 
Il commissario europeo Paolo Gentiloni ha sì confermato le stime sulla crescita per il 2021, in cui, tra l’altro, l’Italia è leggermente sopra alla media europea, ma ha aggiunto che questa è “un’occasione per cambiare le economie” e che non va cercato il puro e semplice “ritorno alla normalità”. I servizi, l’economia legata ai servizi, stanno invadendo tutti i settori del commercio. Il processo partiva da prima, dalla diffusione di algoritmi e di e-commerce e dall’ingegnerizzazione e informatizzazione delle piattaforme distributive, ma con la pandemia ha corso ancora di più e ha cambiato i suoi obiettivi. 

 
Sotto al grande mondo delle multinazionali sono nate e si sono sviluppate, proprio in questi mesi, nuove realtà specializzate e la stessa distribuzione casa per casa o ristorante per ristorante dei prodotti alimentari ha cambiato faccia. Ora vanno queste nuove realtà e vanno anche abbastanza forte, e chi ci lavora ha una certa quale rabbia positiva, perché sente che sta facendo qualcosa di nuovo e in un paese conservatore e corporativo come l’Italia il nuovo può essere solo positivamente rabbioso. Queste persone sono pronte a tenere le posizioni acquisite, ma sanno che nella seconda metà del 2021 dovranno essere capaci di restare sul mercato e di capitalizzare quello che hanno imparato e inventato. 

 
Mentre finisce questo trimestre infiltrato, per non mollare il nostro ottimismo bisogna ripassare a mente i punti di resistenza economici, sociali e anche politici. I primi sono i più facili da elencare, anche se una certa nebbia polemica vorrebbe nasconderli. Perché il sistema manifatturiero italiano ha retto all’impensabile, a un anno sospeso, in cui il mondo ha deciso di saltare un turno. Il calo della produzione è stato minore delle attese, appena c’è stata la possibilità di tornare sui mercati, durante la scorsa estate e nella prima parte dell’autunno, la capacità di rimbalzare e riprendere quote di mercato si è mostrata con grande agilità. Mentre per alcune produzioni, e non parliamo solo banalmente del farmaceutico e del biomedicale, l’attività non si è mai interrotta. (segue a pagina due)
  

I preparativi per la ripartenza. Per alcuni il tempo della crisi non è stato perso, ma è servito per attrezzarsi a operare in condizioni nuove. Grandi risultati nei servizi, e anche il lento settore delle partecipazioni statali ha risposto

 

Ci sono casi nell’alimentare di tenuta nonostante i ristoranti chiusi (un esempio? Il consorzio del Parmigiano reggiano ha aumentato le vendite, perché nel canale della ristorazione indirizza ordinariamente solo il 4 per cento delle vendite e con gli acquisti delle famiglie ha ampiamente recuperato, e ora si prepara a tornare negli Stati Uniti dopo la rimozione dei dazi acquisendo ulteriori quote di mercato), c’è una parte dell’industria meccanica che ha programmato e lavorato e si è anche dedicata ad acquisizioni e razionalizzazioni di enorme importanza, ci sono casi straordinari nei servizi. Con Poste italiane, ad esempio, rafforzata dal ruolo nel sistema del commercio online e favorita nella raccolta del risparmio, e che ha saputo però capitalizzare questi vantaggi, altrimenti fuggevoli con il ritorno alla normalità, e trasformarli in una presenza stabile e rafforzata nei suoi mercati di riferimento. Vale anche per altri grandi fornitori di servizi o di grandi infrastrutture di rete. Un altro esempio è Terna, con buoni risultati di bilancio e soprattutto una forte disposizione all’investimento, anche in supporto al grande piano nazionale di ripresa. Il punto generalmente è che quest’anno sospeso è stato anche un anno di trasformazione. E per alcuni il tempo non è stato perso, ma è servito a prepararsi per operare in condizioni nuove. Terna, tornando a quella esperienza, deve agire in un contesto completamente trasformato, in cui la produzione, il trasporto e la domanda dell’energia sono talmente diversi da ciò che erano solo dieci anni fa da poter essere paragonabili alla differenza tra il mercato degli audiovisivi nell’era dei negozi Blockbuster e in quella di Netflix.


E’ chiaro che grandi società a capitale statale, come quelle citate, hanno le spalle finanziariamente larghe, possono programmare, hanno proprio il compito di reggere nei momenti di crisi. Ma il modo in cui si assolve a questo mandato può essere più o meno buono, e nel passato non mancano esempi di svolgimento disastroso del compito di azienda pubblica. Questa volta, e qui sta l’elemento positivo, sembra che anche il lento e solitamente impacciato settore delle partecipazioni statali abbia saputo rispondere a necessità improvvise e impreviste con risultati migliori di quelli che avremmo atteso, quasi a dimostrare che le ristrettezze sono la più grande scuola di efficienza, non solo nel privato ma anche nel pubblico. Mentre nella Pubblica amministrazione si sente e sarà ancora più forte nei prossimi mesi e anni l’impulso portato da Renato Brunetta con l’affidamento ai migliori dirigenti, di cui alcuni di prossima nuova assunzione, del compito di guidare l’esecuzione dei progetti del Recovery plan italiano. Era dai primi anni Ottanta che non avveniva un processo di riammodernamento delle amministrazioni statali così ambizioso. E questa volta, in più, c’è l’impegno personale del ministro, il largo mandato che gli è stato assegnato, l’individuazione di procedure rapide per favorire l’ingresso di giovani competenti, l’organizzazione del lavoro su progetti e non verticalmente lungo la gerarchia degli uffici. Un impegno, tra l’altro, dichiaratamente messo in atto non tanto per rafforzare, con intenti di chiusura burocratica e corporativa, la macchina statale, ma per dare il massimo sostegno possibile all’iniziativa privata e alla crescita dell’imprenditoria e delle aziende. 

 

Uno stabilimento dell’Agenzia Industrie Difesa è stato riconvertito già dallo scorso anno per la produzione di mascherine (foto Ansa/Ufficio stampa ministero della Difesa) 
  

E veniamo, appunto, al settore privato. Lì si è vista la tenuta eccezionale e inattesa del settore manifatturiero e specialmente della meccanica e delle sue evoluzioni legate all’elettronica. Con la capacità di tenere le quote nel commercio internazionale, cosa d’altra parte vitale per aziende che spesso fanno più dell’80 per cento del loro fatturato sui mercati esteri. Si sono visti casi di capacità rapidissima di adattamento tra forniture verso mercati diversi in base all’apertura o chiusura, a causa dei virus, di questo o quel paese, di questa o quella area del mondo. Anche piccole aziende, in modo speciale quelle concentrate nel triangolo tra Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, capaci di spostare il loro export da est a ovest e viceversa come si farebbe muovendo i pezzi su una cartina del Risiko. E non trascurate le filiere addormentate, come quella della moda e del lusso. Hanno avuto un momento di stop totale. Ma nessuno è rimasto davvero fermo, come mostrano le tante acquisizioni verticali e le tante operazioni di alleanza orizzontale. Per essere capaci di vedere subito la ripresa, ovunque si manifestasse. Quando Exor, la holding di casa Agnelli, ha preso una quota rilevante di Louboutin si è subito capito che il progetto era l’integrazione con il suo fortissimo veicolo commerciale operativo in Asia e con speciale forza in Cina, il gruppo Shang Xia, specializzato nel lusso, e di cui era stato precedentemente preso il controllo. 


Poi c’è stata la resistenza sociale. I governi della pandemia hanno stabilito e poi confermato il blocco dei licenziamenti, tra lamentele confindustriali tanto sbraitate quanto poco efficaci e forse neppure troppo sostenute dall’intero mondo imprenditoriale. Una notazione: la rappresentanza sociale ed economica sembra quasi aver approfittato del tempo sospeso della pandemia per rinnovarsi. Sono cambiate le segreterie in due sindacati confederali su tre, con Luigi Sbarra alla guida della Cisl e Pierpaolo Bombardieri alla Uil. E’ cambiata, per scadenza statutaria ma ugualmente nel periodo dei lockdown, la presidenza di Confindustria e poi quella della Confartigianato. Ma con un pil calato del 9,8 per cento nel 2020, a fare notizia non è stato il malcontento e non sono state proteste e contestazioni, ma è stata l’incredibile, inaspettata, tenuta sociale. Con la capacità di dialogo, e, ancora di più, con il senso di responsabilità con cui si sono mossi soprattutto i sindacati, mentre in alcune parti del mondo industriale, specialmente nei primi mesi difficili, le tentazioni dello strappo con il governo e il disprezzo per le regole sanitarie sono state visibili e marcate. Tutto è stato però mantenuto dentro a un obiettivo comune, che era quello di salvare il sistema produttivo.


E i risultati sull’export hanno mostrato come sia riuscito questo impegno. Mentre dallo sforzo enorme per rivoluzionare la distribuzione di interi continenti nel giro di pochi mesi non poteva che emergere qualche crisi, ma di crescita. E’ noto che grandi gruppi del settore distributivo come Amazon hanno fatto profitti eccezionali in questi mesi. E lo sciopero che li ha riguardati, il primo che tentava di integrare nella protesta l’intera filiera, ha avuto numeri di rilievo. E’ stato un successo da cui partire per, sì, anche redistribuire, perché il trasferimento di ricchezza verso chi gestisce la grande logistica e le piattaforme commerciali internettiane è stato enorme ed è perfettamente coerente con queste dinamiche un miglioramento delle condizioni lavorative e del trattamento dei lavoratori. Una crisi di crescita, per un gruppo come Amazon potrebbe anche essere un’occasione per consolidare la sua posizione di forza dopo aver preso il mercato con la spregiudicatezza iniziale, perché fissando standard più alti nel trattamento economico dei lavoratori e nell’organizzazione del lavoro si sbarrerebbe l’ingresso a chi volesse tentare di scalzare i big usando le loro stesse armi.

 

La rinnovata capacità di negoziazione sindacale. L’indice di fiducia delle imprese salito anche nel difficile mese di marzo. Anche la politica, che sembra il più ingessato degli ambiti pubblici, ha saputo reagire e ora può dirsi trasformata: notizie del populismo e dell’anti europeismo? La forza trainante della globalizzazione

   

Tanto che, negli Usa, Amazon è uno dei principali sostenitori dell’innalzamento a 15 dollari della paga oraria minima. Ma lo scenario che vediamo, tornando in Europa, è quello di una rinnovata capacità di negoziazione sindacale di cui l’intera economia finirà per avvantaggiarsi, perché non si nega l’obiettivo degli aumenti di produttività, anzi, ma si chiede, legittimamente e con intelligenza, che gli effetti sull’aumento della ricchezza vengano redistribuiti.


Alla gestione responsabile della crisi sanitaria da parte dei sindacati confederali ha tentato di fare da controcanto una serie di associazioni e organizzazioni del lavoro autonomo e delle piccole imprese, portando in piazza una protesta più dura, più esasperata, e diretta verso i responsabili politici delle chiusure e delle limitazioni alla vita ordinaria. Iniziative che si sono ripetute, assumendo però, via via, un che di abitudinario e senza scalfire la realtà dei rapporti economici. Il loro obiettivo, da subito, è stato il governo, prima uno e poi l’altro, con la questione della lentezza negli aiuti economici e della loro esiguità. I toni usati hanno dato, però, l’impressione di iniziative coordinate in una campagna più di tipo politico, contro il governo, quello precedente e l’attuale, e a sostegno dell’opposizione, stabilmente quella di destra rappresentata da Fratelli d’Italia e occasionalmente il resto del centrodestra, e non di una radicata rappresentanza di interessi sociali e imprenditoriali. In altri paesi europei, segnatamente in Germania e in Olanda, queste forme di proteste sono state ben più forti, con un malcontento sociale a tratti esplosivo, cui gli stati hanno risposto con metodi molto decisi, anche perché alla protesta economica si saldava quella contro le restrizioni e contro un obbligo importante, ma trasformato suo malgrado in qualcosa di simbolico, come quello dell’uso della mascherina.  


Le imprese stanno anticipando la percezione della ripresa. L’indice di fiducia che le riguarda, calcolato per l’Italia dall’Istat, è salito anche nel difficile mese di marzo e proprio mentre lo stesso indice, ma relativo al sondaggio tra famiglie e consumatori, segnava un arretramento. Mentre è dalla fine dell’estate che gli indici anticipatori mostrano un certo fermento nel mondo produttivo, con la serie dei Pmi (Purchasing Manager Index), che rilevano le intenzioni dei direttori acquisti delle aziende, in continuo aumento. Vuol dire che tra i dirigenti d’azienda prevale la consapevolezza del rinforzato impegno produttivo e di mercato che ci attende. Mentre, tra ulteriori misure di riduzione delle attività sociali ed economiche, i cittadini ancora sono sballottati dalla crisi sanitaria, ancora hanno due piedi nel trimestre infiltrato e sfugge loro, per ovvie e comprensibili ragioni, il cambiamento in arrivo. Secondo Ey, nella rilevazione abituale sulle condizioni delle imprese, il capital confidence barometer, il 67 per cento dei ceo e dirigenti d’azienda italiani si attende un ritorno dei livelli di redditività pre pandemia entro il 2022 e, cosa ancora più importante, crede che questo risultato possa essere raggiunto attraverso una strategia di riposizionamento competitivo, in altre parole grazie a cambiamenti strutturali e organizzativi decisi proprio durante i mesi di blocco e grazie alle nuovi condizioni che si troveranno sui mercati. Il 55 per cento delle aziende italiane ha confermato di aver avviato significativi processi di trasformazione, per recuperare efficienza e capacità di generare profitti. Il 68 per cento (vedete che l’entità delle percentuali è abbastanza costante, e sempre sopra alla metà) delle aziende italiane intervistate punta alla crescita sui mercati mondiali e intende farlo attraverso l’acquisizione di società estere, anche perché si ritiene sempre più importante la presenza di controllate o partecipate nei mercati di sbocco. Mentre è sotto alla media mondiale, pari al 19 per cento, ma è comunque di un certo peso, la quota di aziende italiane che intende investire nella transizione digitale. Sono il 12 per cento ad aver dedicato risorse molto maggiori di quelle impiegate in passato per la digitalizzazione, e uno sforzo di questo genere non potrà che avere effetti di rilievo sul sistema produttivo. Anche l’industria dei beni di consumo ha manifestato una specifica capacità di resistenza e perfino, in alcuni casi, è riuscita ad aumentare la sua quota di mercato. Per il presidente di Centromarca, Francesco Mutti, “i dati confermano la forza delle industrie sul mercato interno e internazionale, sono risultati conseguiti grazie alla capacità di presidiare la fascia medio-alta dei beni di consumo e adottando strategie di costante upgrade qualitativo dei prodotti. La nostra industria di marca – dice ancora Mutti – non esce ridimensionata dalla crisi del Covid, le imprese esportatrici hanno aumentato le quote sui mercati esteri, mentre quelle operanti soprattutto sul mercato interno hanno saputo reggere alla pressione competitiva”. Soprattutto nel settore tengono gli investimenti. Il 58 per cento delle aziende associate ne faranno per innovazione di prodotto, il 32 per cento investirà per introdurre nuove tecnologie, e un buon 30 per cento per cogliere opportunità di vendita. 

 
Anche la riorganizzazione dell’offerta politica e della stessa competizione politica è sotto i nostri occhi. Dicevamo degli avvicendamenti durante la pandemia alla guida di sindacati e Confindustria, ma sappiamo bene di aver retto alla pandemia cambiando governo e con una serie di sostituzioni alla guida dei partiti, da cui non potrà che scaturire una nuova forma di competizione elettorale. Anche la politica, che sembra il più ingessato degli ambiti pubblici, ha saputo reagire e ora può dirsi trasformata. Avete notizie del populismo, quello proprio brutto e becero? Ce n’è l’eco in qualche stanco tweet salviniano, robetta ripetitiva, senza più verve. Le stesse critiche all’Europa sono diventate, appunto, critiche, come quelle che, con spirito democratico e sana partecipazione, rivolgiamo al nostro paese, ai nostri paesi. Per la prima volta la Commissione europea è stata descritta come una specie di governo (si pensi soprattutto alle vicende legate all’approvvigionamento dei vaccini) di cui si criticava, volendo, l’operatività, le scelte, l’individuazione di priorità e obiettivi. Ma non se ne discuteva né la legittimità ne la desiderabilità. L’anti europeismo duro e puro, ovviamente altra faccia del nazionalismo, è finito in un angolino, forse a est dell’Ue, nelle mani di Viktor Orbán, espulso, però, nel frattempo dal ruolo di infiltrato nel Partito popolare europeo. E la Commissione europea ha potuto cominciare a rivolgersi verso i paesi che non rispettano i principi dello stato di diritto con forme di iniziativa politica per metterli in mora, cioè esattamente come farebbe un governo. Ripartiamo, tra poco, anche da queste posizioni avanzate nel cammino europeo. Gli eurobond ancora non ci sono, ma con Next Generation Eu c’è stata una prima emissione di debito da parte della Commissione, siamo quindi più dalle parti dei titoli comuni dell’Unione che da quelle delle emissioni nazionali. Mario Draghi ha detto di avere intenzione di insistere e di insistere ancora, dopo aver predicato a favore degli eurobond da una posizione, come è noto, di una certa forza. Ha tagliato corto sugli entusiasmi immediati, ma ha anche fatto capire che il progetto, prima o poi, verrà realizzato, se non altro perché si capirà quanto convenga a tutti. 


Anche ciò che sta dicendo e facendo Draghi va messo, come si diceva una volta, nel giusto contesto. Perché il suo impegno davvero interessante è nell’uso di uno schema comunque ottimista in una fase così difficile. Lo fa, come è suo costume, citando per prime le parole e i temi da cui di solito si fugge per poi provare a proporre qualche soluzione. “Bisogna – ha detto – reagire alla depressione, alla perdita di interesse nell’attività, nel lavoro, che questo lungo periodo di contenimento ha provocato dovunque”. Chiamata la (terribile) depressione col suo nome, ci si può anche concedere quel po’ di retorica che inevitabilmente arriva quando lo sguardo di un governante, di un politico, va oltre l’immediato. E quando Draghi dice che bisogna “tornare ad avere gusto nel futuro” si capisce che non sta citando uno slogan da cartellone acchiappavoti, ma sta provando a dare una traccia per la politica, per l’economia, anche per la vita, si direbbe. Il punto di partenza del presidente del Consiglio resta quello di un anno fa, con l’indicazione della necessità di abolire qualunque limite alla capacità di intervento pubblico e quindi di spazio fiscale non per dare sussidi e basta ma per mantenere in piedi la capacità operativa delle aziende e dei lavoratori. A un anno di distanza da quelle sue raccomandazioni ai governi europei può essere sollevato, e noi con lui, vedendo che una buona parte dell’industria ha saputo fare proprio quello che chiedeva, cioè restare in piedi, fermare sì le macchine per un po’, ma tenendole ben oliate e pronte a rimettersi in movimento. In alcuni passaggi meno notati a caldo dei suoi recenti interventi Draghi ha anche detto che il settore dei servizi, a partire da quello turistico, è rimasto in grado di attivare immediatamente la ripresa. Questo è il frutto di un lavoro fatto attraverso l’intervento pubblico, tra mille errori ed enormi manchevolezze, ma riuscendo a salvare il nocciolo delle grandi e piccole (ciascuna aveva le sue difficoltà e i suoi vantaggi, tra questi i grandi gruppi hanno più accesso al credito, i piccoli, di contro, hanno più flessibilità) imprese del settore della ricettività e del turismo. Con un piccolo vezzo lessicale Draghi ha scelto di passare dal termine “ristoro” al “sostegno”. Se ne può fare oggetto di ironia, ma il senso, in questo nostro tentativo di racconto ottimistico, è nel passaggio a una fase in cui si cominciano ad avviare le attività private di nuovo verso la capacità autonoma di andare avanti, anche trasformandosi e innovando.


 Un ruolo, nel mantenimento delle condizioni di operatività delle imprese, lo ha giocato anche la storica patrimonializzazione delle famiglie italiane. Uno schema del mondo contadino diceva che bisogna essere comunque pronti per gli anni che andranno male. Quello che ci è successo ha qualcosa a che fare con questo schema. Il segnale interessante però è che non è stata scalfita in modo rilevante la parte immobiliare, da sempre la più rilevante, del patrimonio delle famiglie italiane. I prezzi immobiliari sono calati, ma non in modo molto significativo, e non certo per una corsa alla liquidità ma più per effetto del calo del mercato degli affitti, anche brevissimi, dovuto al contenimento della mobilità. 

 
Mentre, tra ciò che resta e continua a produrre effetti, malgrado i tentativi di darla per sparita, c’è la forza della globalizzazione. La crescita del commercio internazionale dal 2000 a oggi mostra una continuità disarmante, il grafico che la rappresenta, esprimendoci in termini non strettamente matematici, va su in modo repentino, diciamo con un angolo di 45 gradi, dal 2000 al 2008 e poi riparte con un’inclinazione leggermente minore, ma sempre notevole dal 2010 a ora. Sì, ci sono due momenti di repentino crollo e altrettanto rapida ripresa, immaginate due “V” profonde in corrispondenza del 2008 e, come potevamo aspettarci, del 2020 con la crisi pandemica. Da questa recentissima “V” il mondo è già riemerso e il commercio globale ha ripreso a crescere, anche con uno strappo verso l’alto. L’Italia (scontati i problemi strutturali, pre pandemia e pre-tante-altre-cose, da cui dipende la stagnazione ormai ventennale della produttività) ha tenuto le suo quote di mercato e le imprese hanno saputo assecondare con dinamismo i movimenti della domanda mondiale. In gennaio il calo degli scambi commerciali interni all’Ue, l’area più rilevante per le imprese italiane, aveva contenuto ulteriormente il calo e si avvicinava al ritorno ai valori precedenti alla crisi sanitaria. In febbraio, rispetto a un anno prima (quindi rispetto all’ultimo mese senza effetti rilevanti per la pandemia), ancora si notava un calo marcato dell’export verso gli Usa, sceso del 21,1 per cento, e verso Regno Unito e Russia, rispettivamente -13,8 per cento e -11,4 per cento. Ma dove l’attività è ripresa in pieno l’export italiano era subito tornato a correre. Le vendite verso la Cina, segnala l’Istat, in febbraio hanno segnato una crescita, in dodici mesi, pari al 54,2 per cento. Ovviamente anche in questo caso bisogna tenere in considerazione gli effetti contingenti della pandemia, perché in Cina le restrizioni e la riduzione dell’attività erano cominciate prima del lockdown italiano e di quelli europei, quindi il confronto tra gennaio 2020 e gennaio 2021 risente dello sfasamento iniziale, ma il dato resta notevole. E soprattutto sarà spettacolare il recupero verso gli Usa. Anche Draghi ha parlato, si direbbe con ammirazione, dell’entità del piano di ricostruzione economica avviato da Joe Biden, con quell’impegno gigantesco da 1.900 miliardi di dollari, i cui effetti arriveranno anche da queste parti. L’Ue ha fatto tanto, ha detto il presidente del Consiglio, ma ha reso disponibili comunque risorse minori di quelle americane, anche se, per precisione, andrebbe calcolata nello sforzo europeo la parte che, anche automaticamente, l’Ue con il fondo Sure, e i singoli stati con i sistemi di welfare nazionale, spendono in misure di sostegno al lavoro (come la nostra cassa integrazione) e in sanità pubblica (interamente coperta dallo stato nei paesi europei, mentre lo stesso piano Biden destina parte di quella somma enorme a coprire esigenze sanitarie che qui sono già assicurate ai cittadini). Anche con queste avvertenze, però, il piano americano resta più ingente di quello europeo e promette maggiori effetti. 

 
Il richiamo fatto dal governo italiano alla ripresa di una maggiore integrazione economica e commerciale tra Europa e Stati Uniti si lega certamente alla necessità di fare in modo che entrambi i piani di sostegno pubblico alla crescita siano un successo. Ma è certamente un altro degli effetti di trasformazione, cui non si può che guardare con ottimismo, che hanno interessato il mondo durante la pandemia. L’uscita di scena di Donald Trump per il momento ha regalato solo soddisfazioni ideali al fronte antisovranista, ora bisogna passare ai fatti e le premesse sono buone. Globalizzazione e integrazione tra economie industriali hanno ripreso il loro passo, ma la novità è che sono accompagnate da una maggiore consapevolezza politica. Non è quella fase arrembante che ci raccontava il grafico sul commercio internazionale negli anni immediatamente successivi al 2000. E’ un momento diverso, in cui Stati Uniti ed Europa hanno attraversato le tentazioni e le prove sovraniste e ne hanno avvertito il pericolo. Si rimette tutto in moto, però, con qualche acquisizione, anche sociale, in più. Per l’Italia parlavamo dello sciopero riuscito e della richiesta di miglioramenti delle condizioni di lavoro nelle grandi piattaforme logistiche e commerciali, dagli Stati Uniti arriva notizia (lo scrive l’Economist) del primo impianto di Amazon, quello di Bessemer in Alabama, che verrà sindacalizzato, in cui, cioè, i rappresentanti dei lavoratori potranno negoziare salari e organizzazione del lavoro. Per le imprese che hanno rivoluzionato il modello produttivo e distributivo a partire dalla metà degli anni Novanta è un passaggio sano e obbligato. Vuol dire consolidarsi, diventare davvero grandi, far entrare stabilmente nel sistema economico quei modelli innovativi. Vuol dire che la globalizzazione non si è fermata e non si fermerà. E poi, tranquilli, adesso si sblocca anche Suez