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Buoni o cattivi nel regno dei like

Antonio Pascale

Per sopravvivere in un mondo che capiamo sempre meno abbondano le semplificazioni

Non so se ci avete fatto caso, ma sempre più spesso stiamo dividendo il mondo in buoni e cattivi (naturalmente è molto difficile che chi scrive e chi legge sia il cattivo). Una questione narrativa, ovvio, viene più comodo così. Prendete il caso dei paesi frugali contro il resto del mondo. Per la maggior parte delle volte, la narrazione si è concentrata su aspetti caricaturali, dunque, in questo caso, i cattivi, cioè i frugali, erano gli olandesi. Questo tipo di narrazione crea, certo, possibilità di fidelizzazione, ma non illustra le ragioni delle differenze, e nemmeno ricerca, con analisi seria, i motivi del disaccordo, cosa che un intellettuale, uno scrittore, un giornalista, insomma, un narratore in senso lato dovrebbe sempre fare.

  

Viene poi a mancare una delle invenzioni più rivoluzionarie della narrativa e cioè il cambio di punto di vista. Se qualcuno mi avesse chiesto: lei vuole erogare dei soldi, così, senza molti controlli, non so, a campani, calabresi, siciliani, greci, romeni e via dicendo, probabilmente, da meridionale, avrei detto: ma che siete pazzi? Io sono un frugale, ci tengo che i soldi non vadano sprecati, e di quelli non mi fido. La mia posizione sarebbe motivata da una miriade di luoghi comuni e qualche verità (esattamente come nel caso degli olandesi verso di noi e noi verso di loro), e tuttavia sono sicuro che una narrazione del genere avrebbe potuto trovare, se ben potenziata, tanti sostenitori: non avrei infatti cambiato il mio punto di vista per cercare ragioni di disaccordo creativo, ma avrei potenziato quello che già so (e so male).

  

La verità? Il mondo è troppo complesso, sempre di più, e noi siamo troppo vecchi per affrontare la complessità, non solo dal punto di vista anagrafico (altro serio problema). Del resto, siamo costruiti, dal punto di vista evolutivo, non per cercare la verità. E qui, come verità, intendo quella sfumata ragnatela di eventi e umori, desideri, ambizioni, circostanze ecc., che ci definisce e ci misurano, ma siamo stati fatti per essere dei bruti (non certo per seguire virtute e conoscenza). Per questo adottiamo una narrazione sempre più semplificata, da bruto che ci fa vincere in casa. L’intellettuale sta rischiando seriamente (e ce ne accorgiamo su tante questioni sensibili) di recintare il proprio orto contro gli invasori, quindi, se non ci piace Chiara Ferragni addosso a Chiara Ferragni, se non ci piacciono i maschilisti, le femministe, i frugali, i meridionali, i migranti, addosso a loro.

  

Il cambio di punto di vista, indispensabile per capire di cosa parliamo quando parliamo di conflitti, è abolito, in favore di un generico stringiamoci a coorte, anzi, visto che ci siamo ci penso io, faccio da capopopolo: posizione che, tra l’altro, ha fatto la fortuna di una certa narrazione politica di questi anni, a sinistra e a destra. Dai, purtroppo è un fatto: del mondo non ci stiamo capendo niente, troppi interessi e desideri. Non solo siamo abituati a un campo da gioco più piccolo e familiare, ma non abbiamo sviluppato una narrazione capace di accogliere questa complessità. Tuttavia, invece di ammettere la difficoltà, stiamo trasformando l’ignoranza (dell’altro da noi) in virtù narrativa. Forse dovremmo smettere di proporre versioni narrative così semplificate, forse noi intellettuali dovremmo prenderci un po’ di tempo prima di intervenire, evitare quel tono saccente, rabbioso, da attacco permanente, difesa a oltranza, e spingere la conoscenza fuori dalle colonne d’Ercole. Forse noi lettori dovremmo imparare a fare un po’ di sforzi quando leggiamo o guardiamo la tv; voglio dire, evitare quelle narrazioni che soddisfano le nostre aspettative.

  

La bellezza non salverà mica il mondo. Questa frase così suggestiva e così vaga (per un vecchio conservatore, la bellezza è ordine e disciplina, per un moderno è disordine e impurità) non è soddisfacente. La collaborazione salverà il mondo. Per collaborare dobbiamo conoscere e per conoscere dobbiamo utilizzare altre e più complesse narrazioni. Quando conosci, spesso, combatti contro te stesso, le tue manie di protagonismo, le tue chiamate in correità, i tuoi bias. Ci vuole tempo per collaborare: devi anteporre i dati alla tua persona, rompere gli stereotipi che ci governano, indossare altri panni (entrare in empatia) e capire cosa vogliamo noi rispetto agli altri. Per conoscere devi disimparare, quindi lottare contro di te. Difficilissimo, quasi tragico, un problema serio che certo non risolveremo con i buoni e i cattivi, tanto meno con i like.

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