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Anche le statue muoiono

Adriano Sofri

Abbattimenti, decollazioni, trasferimenti. Un catalogo, sull’onda del tumulto corrente, guidato da un proposito civile: bisogna continuare a erigere statue. Per conservare una forma di devozione e perché non si possono lasciare le generazioni future senza niente da abbattere

La mia sarebbe una rassegna che chiunque potrebbe compilare, con un po’ di applicazione, se non fosse guidata da un proposito civile, quello di dissuadere dalla conclusione semplicistica cui corrono in tanti: farla finita con le statue, non erigerne mai più una. Al contrario, è dovere dei governi e delle autorità pubbliche continuare e moltiplicare l’erezione di statue, in considerazione delle generazioni future. Le generazioni future non devono restare senza niente da abbattere. Innalziamo statue. Investiamo sull’avvenire in cui, più o meno remoto che sia, esse saranno abbattute o demolite o almeno traslocate in qualche periferia. E’ infatti un futile pregiudizio che si innalzino statue per assicurare un’immortalità: da 40 mila anni le statue servono solo a prolungare il tempo degli umani e specialmente dei più notabili e potenti fra loro. I quali, a differenza della moltitudine degli anonimi (almeno fino a quando non è stato universalizzato il quarto d’ora di notorietà) sono destinati a una doppia mortalità: prima in quanto corpi, poi in quanto statue. Interpellata dal New York Times, Erin L. Thompson, docente al John Jay College of Criminal Justice, ha detto: “Come storica dell’arte, io so che la distruzione è la norma e la conservazione è la rara eccezione”.

 


Illustrazione di Makkox


 

La professoressa Thompson ha dedicato la carriera allo studio delle ragioni che portano la gente a distruggere deliberatamente le icone del retaggio culturale. Osserviamo così intanto che anche la demolizione delle statue è una disciplina scientifica che ha i suoi specialisti, come il virus del Covid-19, e che il contagio degli assalti alle statue li fa emergere dall’oscurità di esistenze accademiche rannicchiate. In particolare, la professoressa Thompson mostra di associare alla teoria una competenza terra terra, diciamo; un suo tempestivo tweet durante i primi assalti raccomandava di tirar giù le statue con una catena piuttosto che con una corda: “Funziona meglio, la catena è meno elastica, dunque la forza del tiro si disperderà di meno”. Dunque l’abbattimento delle statue è anche un mestiere, specialmente nelle zone del mondo in cui i cambi di regime si susseguono freneticamente, sicché i potenti di turno sentono che il terreno gli brucia sotto i piedi e si sbrigano a montarsi le proprie statue. Ho ricordato come sia frequente il caso di statue che, sia per ragioni statiche, sia per ragioni di risparmio, vengono divelte lasciando sussistere gli stivali (le statue di dittatori e despoti e generali hanno di preferenza gli stivali) riciclabili per il prossimo ospite. Riprendo da Paolo Nori, che lo riprende da Ryszard Kapuściński, “Shah-in-shah”, Feltrinelli 2009, l’intervista di un giornalista del quotidiano Kayan di Teheran a un abbattitore di statue dello scià: 

“Da anni e anni il giovane scià non faceva che erigere statue in onore suo e del padre, per cui ce n’era un bel po’ da abbattere.

D. Le ha abbattute tutte?

R. Sì, non è stato difficile. Al rientro dello scià dopo il colpo di stato [nel 1953] non c’era più un solo monumento a Pahlavi. Ma lui cominciò immediatamente a farne erigere dei nuovi, a se stesso e al padre.

D. Vuol dire che voi li tiravate giù, lui li ricostruiva, voi li tiravate giù di nuovo e via di seguito?

R. Sì, proprio così. Roba da far cascare le braccia. Ne distruggevamo uno, e lui ne costruiva tre; ne distruggevano tre, e lui ne tirava su dieci. Non se ne veniva mai a capo. […] Nel ’79, durante l’ultima rivoluzione, ci si vollero immischiare anche i dilettanti, per cui purtroppo ci furono molti incidenti: più d’uno ci rimase sotto. Abbattere un monumento non è semplice come sembra. Ci vogliono pratica e professionalità. Bisogna stabilire di che materiale è fatto, il peso, l’altezza, se all’intorno è saldato o cementato, in che punto attaccare la fune, in che direzione fare oscillare la statua e, infine, come distruggerla. Appena cominciavano i lavori per erigere una nuova statua, noi ne approfittavamo per fare i nostri calcoli”.

 


Da 40 mila anni servono solo a prolungare il tempo degli umani e specialmente dei più notabili e potenti fra loro. Per tirarle giù, una catena funziona meglio di una fune, ha spiegato in un tweet la professoressa Erin L. Thompson


 

Il più clamoroso abbattimento contemporaneo è stato quello della statua di Saddam Hussein, a Bagdad, il 9 aprile 2003. Tutto il mondo guardò, incantato: la statua era di bronzo e cava, fu una lunga operazione a cielo aperto, il popolo iracheno che rovesciava nella polvere il suo tiranno e lo faceva a pezzi. Non andò proprio così. Gli iracheni nella piazza, inquadrati dalle telecamere, erano un centinaio o poco più, e “fu il sergente dell’esercito americano Leon Lambert a dare loro la mazza con cui colpire la base della statua. La stessa bandiera irachena che poi fu issata sulla statua (al posto di quella a stelle e strisce, gaffe terribile) fu fornita dal tenente Casey Kuhlman, che l’aveva comprata come souvenir. L’operazione durò due ore circa: la Cnn continuò a trasmettere immagini dalla piazza ogni quattro minuti”. Kadhem Sharif, l’uomo in canottiera che prese a colpi di mazza la statua, era un meccanico che aveva riparato le motociclette di Saddam, prima che lui gli sterminasse la famiglia. Qualche tempo fa, intervistato, ha detto di essersi pentito, che avevano buttato giù un Saddam per insediarne mille. La statua venne giù agganciata al collo con un cavo da un carro armato dei marines. Anche là un po’ di piedi del dittatore restarono attaccati al piedistallo.

 

Un paio di mesi dopo al suo posto fu eretta una statua all’Iraq unito; nel 2011 era stata tirata giù anche lei.

 

Chissà come si metteranno le cose per la statua della Libertà. Giorni fa Bono, l’irlandese, ha detto: “Io so che per molti neri americani la fiaccola di Lady Liberty è tutt’altro che un faro di speranza, è spesso una torcia elettrica puntata sulla faccia”. C’è un precedente, all’arrivo della nave che porta il sedicenne Karl Rossmann, nel racconto di Kafka “Il fochista”, l’inizio del romanzo che Max Brod intitolò “America”. Franz Kafka descrive la statua della Libertà con il braccio destro levato a impugnare una spada, invece che la fiaccola: un errore probabilmente deliberato. In giro prevalgono le spade. L’altro giorno a Kiev, Ucraina, gli organizzatori del Gay Pride hanno spedito un drone a infilare la bandiera arcobaleno sulla spada alzata al cielo dal braccio destro della statua in titanio della Madre Patria, 102 metri, dedicata ai soldati sovietici caduti nella Seconda guerra mondiale. Anche “La Madre Patria chiama” di Volgograd, già Stalingrado, ha 33 metri di sola spada.

   


L’anno scorso una coppia di artisti australiani lanciò a New York la campagna “Statues for Equality”, cominciando con dieci sculture che ritraevano personaggi come Oprah Winfrey e Nicole Kidman… “Fino a poco fa a New York le statue che raffigurano donne realmente esistite erano meno del 3 per cento”


 

Le donne sono altrettanti militi ignoti, discinte, il seno offerto, avvolte in bandiere, vittoriose, inalberate come polene, inginocchiate in preghiera, coi figlioletti attaccati alle ginocchia… C’è anche una questione di genere a proposito delle statue. Doppia: perché le statue sono un’occasione prediletta per i nudi femminili, di dee, di donne, di madri patrie, di virtù e di vizi, di fontane e cornicioni. Cariatidi nude sostengono con grazia danzante i loro pesi, sotto i quali i telamoni muscolosi soffrono una fatica da schiavi. E perché statue femminili con un nome e un cognome sono così rare da spingere anche qui alla rivendicazione di una quota rosa. (A Erbil, Kurdistan iracheno, c’è una recente proliferazione di statue di donne curde). L’anno scorso una coppia di artisti australiani, Gillie e Marc, lanciò a New York la campagna “Statues for Equality”, cominciando con dieci sculture che ritraevano personaggi come Oprah Winfrey e Nicole Kidman, Cate Blanchett e Jane Goodall… Nella circostanza fecero sapere che “fino a poco fa a New York City le statue che raffigurano donne realmente esistite erano meno del 3 per cento”. “Nel Regno Unito”, precisavano bizzarramente, “ci sono più statue che si chiamano John che statue dedicate a donne”. Probabilmente una proporzione analoga si otterrebbe in Italia con i Giuseppe (ci sono alcune Anite in giro, oltre che sul Gianicolo). Dati aggiornati portano la quota Usa al 7 per cento e quella inglese al 13. A New York negli anni 90 si erano inaugurate statue a Gertrude Stein ed Eleanor Roosevelt, e nel 2010, a Harlem, a Harriet Tubman (ca.1822-1913) nata schiava e intrepida abolizionista. L’anno scorso sono state erette le statue di Billie Holiday, della pediatra e attivista dei diritti delle donne Helen Rodríguez Trías (1929-2001), dell’afroamericana Elizabeth Jennings Graham, che una domenica del 1854, quando era una maestra di 24 anni, salì a New York su un bus cui i neri non erano autorizzati, resistette all’intimazione di scendere, vinse la causa alla compagnia dei trasporti così che nel 1860 tutti i mezzi cittadini di New York rinunciarono alla segregazione. Un’altra statua raffigura Katherine Walker (1848-1931), tedesco-americana, che fu per oltre trent’anni guardiana del faro di Robbins Reef e salvò decine di navi dal naufragio. Una volta che si cominci, si smette di chiedersi se ci siano abbastanza donne meritevoli che si dedichi loro una statua. Ce ne sono troppe.

  

Statues for Equality vuole l’uguaglianza delle statue maschili e femminili, 50 e 50, entro il 2025: temerario programma. A meno che a renderlo più plausibile contribuisca la moltiplicazione delle demolizioni di statue maschili.

  

Sul Corriere della Sera del 13 ottobre 2018 Giangiacomo Schiavi riferiva di un censimento compiuto a Milano da Giuseppe Landonio, medico, ex consigliere comunale, e dal fotografo Giuseppe Cozzi – due uomini, peraltro: “Su cento monumenti nelle piazze e nei parchi di Milano, nessuno è dedicato a una donna”. A Torino è difficile trovare una statua di donna realmente esistita: una Mafalda di Savoia, a Rivoli... Nel 2018 due giovani signore, Stefania Doglioli e Carlotta Trevisan, hanno pensato di sparpagliare l’8 marzo un numero di artiste di strada immobili come statue a saldare il conto per un giorno.

  

A Milano, continuava Schiavi, “Landonio e Cozzi provano a fare dei nomi: Beatrice d’Este, Cristina Trivulzio, Giuditta Pasta, Ada Negri, Lalla Romano, Camilla Cederna, Maria Callas… Si potrebbe aggiungere Maria Montessori”. Dopo di allora, una statua della scultrice Rachele Bianchi, donata dal figlio, è stata inaugurata l’anno scorso. Al sindaco Sala è stato posto urgentemente il problema, e ci starà pensando, lui che è andato sul tetto del Duomo a raccomandarsi l’anima alla Madonnina.

  


John A. Macdonald, primo presidente del Canada, è il bersaglio numero uno delle tentate demolizioni. Fu l’artefice delle Residential Schools, con i bambini dei nativi canadesi sottratti alle famiglie e chiusi nelle scuole dove non avrebbero più parlato nelle loro lingue, per essere “civilizzati” in inglese


 

Anche le statue muoiono: si intitolava così, “Les statues meurent aussi”, un film documentario del 1953, 29 minuti, di Chris Marker e Alain Resnais sulle sculture africane, e sul colonialismo francese ed europeo. Il film subì dieci anni di censura. Resnais sollevava una questione cruciale: perché l’“arte negra” fosse collocata al Musée de l’Homme, come un affare etnografico, invece che al Louvre, come i capolavori dell’arte. Cose così è costretta a ripetere a Roma Igiaba Scego.

   

Ammetterete che questo subbuglio porta con sé un benefico diluvio di conoscenze. Teddy Roosevelt, per esempio, quello del “Vento e il Leone”, quello che ha dato il nome al Teddy Bear, quello la cui statua prende vita nella Notte al museo. La direzione del Museo di Storia naturale di New York, da tempo tormentata dal gran bronzo di Theodore Roosevelt a cavallo con due scudieri abusivi, un nativo americano e un africano scalzo, ha detto che è venuto il momento, “data la composizione gerarchica della statua”. Un pronipote ha convenuto. Il sindaco De Blasio ha aderito. Qui il compromesso distingue fra la statua e la persona… Che cos’altro sapevamo, mediamente, di lui? O, meglio, John A. Macdonald (1815-1891), primo presidente del Canada, bersaglio numero uno delle tentate demolizioni. Fu l’artefice delle Residential Schools, in vigore dal 1876 al 1996 (!): i bambini dei nativi canadesi, Inuit, “Prime Nazioni”, Métis, erano sottratti alle famiglie e chiusi nelle scuole dove non avrebbero più parlato o sentito parlare nelle loro lingue, per essere “civilizzati” in inglese: alla missione si sobbarcavano la Chiesa cattolica, la Chiesa anglicana e la Chiesa Unita del Canada. Già un secolo fa si levavano denunce pubbliche e documentate sulle violenze fisiche, sugli abusi sessuali e sulla cancellazione della memoria. Le prime scuse ufficiali del governo vennero nel 2008, insieme alla costituzione di una Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Erano stati segregati nelle Scuole residenziali più di 150 mila bambini; 31.970 le cause per abusi sessuali; 6 mila le morti accertate. Adesso, quando vediamo una fotografia della statua di Macdonald, sappiamo di che cosa si tratta. La sua statua, davanti al municipio di Victoria, fu la prima a essere imbragata e rimossa, l’11 agosto del 2018, da un camion gru. Si noti: era stata eretta solo nel 1981. Il suo autore, John Dann, protestò che si sarebbero dovute rimuovere le statue di tutti i primi ministri, dal momento che le Residential Schools erano durate per 120 anni: argomento da considerare. Un anno prima, nel 2017, una statua di Macdonald a Montreal era stata spruzzata di rosso da un gruppo contro l’odio razziale che aveva messo in rete il video, ricordando che a Macdonald erano intitolate molte scuole. Oggi l’ultima statua di Macdonald resiste, assediata, in un parco di Kingston, Ontario, dove era cresciuto. Il sindaco ha proposto di cambiare l’iscrizione sulla base, scrivendo “nel bene e nel male”…

  

In Nuova Zelanda, dopo che l’Anziano Taitimu Maipi​ aveva avvertito ufficialmente il municipio di Hamilton che il sabato successivo l’avrebbe buttata giù personalmente a martellate, il 12 giugno è stata rimossa, “ma gentilmente”, con un camion gru, la statua del capitano John Hamilton, morto combattendo al comando delle forze britanniche nel 1864. Anche qui i rivolgimenti culturali si mostrano piuttosto repentini: la statua era stata eretta solo nel 2013. Resta la questione del nome della città, la quarta del paese.

  

I nativi (il 24 per cento) vorrebbero che le fosse restituito il nome Maori, Kirikirikoa: difficile dargli torto, anche a orecchio. (Vuol dire più o meno “lunga striscia di ghiaia”).

  


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Nel 2017, a Bruxelles, il Comune, aderendo alla richiesta dei commercianti, ha fatto installare una statua di Jacques Brel sulla Place de la Vieille Halle aux Blés. Il bronzo, opera di Tom Frantzen, raffigura Brel davanti all’asta del microfono, a braccia spalancate, come a decollare, e si intitola infatti “Il volo”. Il riferimento è alla “Chanson des vieux amants”, “Mille fois j’ai pris mon envol”. (Più pregnante è il riferimento al volare nei tre metri di statua di Domenico Modugno, che allarga le braccia al suo paese, Polignano a Mare).

  

Frantzen (1954) ha sparso a Bruxelles bronzi simpatici di figure quotidiane, un cane che alza la zampa per pisciare, una vecchietta che conta i soldi della spesa, uno che sbuca da un tombino per far inciampare un poliziotto – questa ricorda da vicino le statue di bronzo di Bratislava, come il Cumil che sbuca anche lui da un tombino, forse per guardare sotto le gonne. Frantzen si è preso una bella grana, perché Brel aveva composto, nel 1961, la canzone intitolata “La statue”. Che varrebbe come un promemoria per chiunque si metta in testa di erigere una nuova statua, e specialmente per chi ambisca a farsi erigere una statua, vivo o morto. Ecco l’ultima delle tre strofe:

 

J’aimerais tenir l’enfant de salaud

Qui a fait graver sous ma statue

“Il est mort comme un héros

Il est mort comme on ne meurt plus”

Moi qui suis parti faire la guerre

Parce que je m’ennuyais tellement

Moi qui suis parti faire la guerre

Pour voir si les femmes des Allemands

Moi qui suis mort à la guerre

Parce que les femmes des Allemands

Moi qui suis mort à la guerre

De n’avoir pu faire autrement

Cet enfant de salaud je l’aimerais là

Et j’aimerais que mes enfants ne me regardent pas

 

Vorrei averlo qua il figlio di buona donna / Che ha fatto incidere sotto la mia statua / “E’ morto come un eroe / E’ morto come non si muore più” / Io che sono partito per la guerra / Perché mi annoiavo talmente / Io che sono partito per la guerra / Per vedere se le donne dei Tedeschi / Io che sono morto nella guerra /Perché le donne dei Tedeschi / Io che sono morto nella guerra / Perché non ho potuto fare altrimenti / Quel figlio di buona donna lo vorrei qua / E vorrei che i miei figli non mi guardassero.

   

Il Belgio si prende una dose peculiare nel contagio del “Black Lives Matter” dopo l’assassinio di George Floyd, perché la partita col retaggio coloniale e specialmente con la figura di Leopoldo II (1835-1909) è aperta fino a sanguinare. All’inizio di giugno un adolescente belga di origine congolese, Noah N. L., 14 anni, ha promosso una petizione perché siano rimosse tutte le statue di Leopoldo, a cominciare da quella equestre della Place de Trône di Bruxelles. La petizione, che si chiuderà domani, 30 giugno, sessantesimo anniversario dell’indipendenza del Congo, ha raccolto molte decine di migliaia di firme. Ad Anversa un Leopoldo II è già stato tradotto nel magazzino di un museo.

  

Fatto sta che il Tom Frantzen di Brel aveva scolpito anche il gruppo collocato nel giardino dell’AfricaMuseum di Tervuren, nel centenario dell’Esposizione coloniale (1897-1997). Intitolato “The Congo, I presume”, il monumento raffigura animali esotici e guerrieri africani attorno al busto di Leopoldo. Il museo, che era stato chiuso per ben dieci anni, dal 2008 al 2018, per “decolonizzarsi”, ha voluto ricordare che all’inaugurazione della scultura, nel 1998, “era chiaro che fosse stata collocata in onore di re Leopoldo II per le sue realizzazioni a Tervuren… Non c’erano stati riferimenti al suo ruolo nel Congo e alle atrocità e alle innumerevoli vittime. E gli investimenti per la città di Tervuren erano stati finanziati da Leopoldo coi proventi del caucciù e dell’avorio”. Frantzen aspettò fino al 2018 – vent’anni – prima di spiegare la sua opera, che definisce “satirica”. Scrisse al museo: “Il complesso delle statue, posto su uno specchio d’acqua, rimanda al villaggio africano ricostruito per l’Esposizione del 1897. Le statue evocano il villaggio in cui erano esposti animali esotici e indigeni umani. I blocchi di pietra rimandano al soprannome di Leopoldo, “il re costruttore”. L’elefante e il leone simboleggiano la natura congolese, sublime e possente, e il suo ricco sottosuolo. Gli otto fenicotteri rosa, migratori, simboleggiano la diaspora congolese. Al centro di questa evocazione della natura si trova il busto di Leopoldo II, proprietario dello Stato indipendente del Congo [Leopoldo ebbe il Congo dal 1885 al 1908 come proprietà personale!], e, per i congolesi, incontestabile ‘padre della nazione’. Dall’altro lato del busto c’è un pavone, che fa graziosamente la ruota, allusione indubbia alla vanità e megalomania dell’uomo. L’elefante distoglie lo sguardo dal busto, prende le distanze, simbolicamente, dal saccheggio dell’avorio col quale Leopoldo II si è vergognosamente arricchito. Tre guerrieri africani, nelle superbe vesti tradizionali, sono accostati come soldati servili e ‘esposti’ come trofei personali del re. Notiamo anche che questi robusti guerrieri non hanno piedi: un riferimento diretto alla più brutta storia della colonizzazione. Si tratta insomma del solo insieme di statue anticoloniali del nostro paese e può perciò dirsi unico nel suo genere”. Può darsi che Frantzen avesse avuto da principio quella ispirazione, o che avesse tenuto, per dirla con un umore nero, il piede in due scarpe, e aggiustato l’esegesi dell’opera al cambio dei tempi. Fatto sta che il busto di Tervuren è stato dipinto di rosso, e sul piedistallo si legge in rosso FDP, che in francese come in italiano sta per Figlio di puttana.

   

Perfino nella Repubblica Democratica del Congo la questione restò controversa: nel 2005 il ministro della Cultura Muzungu decise di rimettere in sesto i sei metri di statua di Leopoldo davanti alla stazione di Kinshasa. Resistette poche ore.

   

E Victor Hugo, le sue tante statue, il suo (sfortunato) Rodin, il suo funerale di milioni, è al riparo dagli agguati della retroattività? Chi può dirlo: biografe lo tacciano di erotomania, biografi di disprezzo per l’Africa. Hugo aveva scritto, per una poesia intitolata “La statue”, un paio di versi brutti, mi pare: “Moi, j’ai toujours pitié du pauvre marbre obscur. / De l’homme moins souvent, parce qu’il est plus dur”. (Quanto a me, ho sempre pietà del povero marmo scuro / Dell’uomo meno spesso, perché l’uomo è più duro). Però, quanto alle condanne dei posteri, Hugo se ne era premunito irresistibilmente:

  

La foule tient pour vrai ce qu’invente la haine.

Sur tout grand homme un ver, le mensonge, se traîne.

[…] Ecoutez. Phidias était marchand de femmes,

Socrate avait un vice auquel son nom resta,

Horace ami des boucs faisait frémir Vesta,

Caton jetait un nègre esclave à la lamproie,

Michel-Ange, amoureux de l’or, homme de proie,

Vivait sous le bâton des papes, lui Romain,

Et leur tendait le dos en leur tendant la main;

Dans l’œil de Dante errant la cupidité brille;

Molière était un peu le mari de sa fille;

Voltaire était avare et Diderot venal.

(Les Crucifiés. La traduzione è superflua, spero, limitiamola ai tre versi finali: L’occhio esule di Dante di cupidigia brilla; / Molière era, un po’ marito di sua figlia; / Avaro era Voltaire, e Diderot venale…).

 


All’entrata di Notre-Dame c’è la statua di Saint Denis che tiene nelle mani la propria testa mozzata. Decapitare è una mania ricorrente, coi vivi e coi morti. E’ appena successo a Cristoforo Colombo. Non è solo che tirare giù la statua tutta intera è più faticoso: tagliare teste è un’irresistibile tentazione, la testa è l’uomo


  

Una storia memorabile riguarda una statua mancata di Baudelaire. E’ stata ricostruita in un seminario di due anni alla Sorbona, e pubblicata in 709 pagine nel 2007 (“La querelle de la statue de Baudelaire, août-décembre 1892”, a cura di A. Guyaux, Aurélia Cervoni, G. Peigné e S. Porte). Baudelaire era morto nel 1867. Il 1° agosto del 1892 Léon Deschamps lancia una sottoscrizione a nome di un comitato presieduto da Leconte de Lisle e sostenuto con un insolito fervore militante da Mallarmé, comunicando che Rodin ha già accettato, e pensa a “un gran monumento” – dipenderà anche dalla somma raccolta. Il comitato esibisce decine di nomi illustri: Zola, France, Huysmans, Mirbeau, Goncourt, Verlaine, Maeterlinck, Verhaeren, Stefan George, Swinburne… Subito Ferdinand Brunetière, letterato e moralista, insorge sulla Revue des Deux Mondes, ciò che gli procurerà lo sdegno dei giovani poeti e la promozione all’Académie. Trova scandaloso che una statua di Baudelaire venga esposta in luogo pubblico. Gli spiegano che si tratta di un monumento funerario, ma qualcuno rincara rivendicando il Giardino del Luxembourg, o addirittura Pigalle. Il critico Albert Delpit sfida a duello Brunetière. Lo scontro fra i due e i loro partigiani si fa incandescente. La cosa si trascina fino a insabbiarsi. Un monumento mediocre a Baudelaire sarà collocato solo nel 1902 nel cimitero di Montparnasse, dove è sepolto nella tomba di famiglia del patrigno, generale Aupick. Quanto al duello, gli arbitri erano addivenuti a una conciliazione fra le più spiritose.

  

“… Che se si erigesse una statua a Baudelaire in luogo pubblico, il signor Brunetière non perderebbe la stima di cui gode presso il pubblico, resterebbe professore all’Ecole Normale e critico alla Revue des Deux Mondes… Che il signor Albert Delpin non ha personalmente niente da guadagnare dall’erezione di un monumento al poeta, che oltretutto non starebbe nemmeno nel quartiere in cui abita… Che si trema al pensiero delle discussioni che si scatenerebbero in futuro, se si lasciasse creare un precedente così increscioso, quando si trattasse di innalzare una statua vuoi al signor Brunetière, vuoi al signor Delpin…”.

  

Qualcuno reagì alla delusione osservando che il vero monumento a Baudelaire erano “Les fleurs du mal”. L’aveva detto già Orazio, di sé: Exegi monumentum aere perennius. Ho eretto un monumento che durerà più del bronzo.

   

Le statue abbattute vengono recuperate in fretta. Il mercante di schiavi e benefattore di Bristol, Edward Colston (1636-1721), era appena finito a capofitto nel porto sull’Avon che già gli addetti lo ripescavano. Il problema riguarda la destinazione delle statue abbattute o rimosse. I dirigenti dei musei, cui si vuole delegare la cosa, sono assillati dalla penuria di spazio e dai costi di manutenzione, anche a metterle nei depositi. Sui bronzi, c’è una tendenza a fonderli e reimpiegarli: fare campane, per esempio. I pochi bronzi antichi sono arrivati fino a noi solo perché naufragavano e il mare li conservava, se no il loro destino era d’esser fusi per farne cannoni. Gli uomini infatti sono scultori che fanno le statue, ma soprattutto cazzoni che fanno la guerra. Il postcomunismo, che si è dovuto porre il problema su una scala senza precedenti, e senza la distruzione generale che la guerra aveva procurato ai fascismi, ha fatto a suo modo di necessità virtù, e ha traslocato le statue in luoghi separati, costruendo memoriali buoni ad accontentare tutti: gli anticomunisti capaci di inorridire della ferocia e del cattivo gusto, e i nostalgici disposti a rimpiangerli. L’Ungheria ha visto rivolgimenti così numerosi ed efferati, seppellimenti e disseppellimenti e riseppellimenti di corpi umani e statue, che ne fanno un campione esemplare della storia del Novecento, e della sua invadenza nel XXI secolo. (C’è un libro impressionante di István Rév, “Giustizia retroattiva. Preistoria del postcomunismo”, Feltrinelli 2007). Budapest, come tutti i centri della Mitteleuropa – come Trieste – era ed è una città di statue. Ha dal 1993 un Memento Park, a una decina di km dalla città, che contiene il Parco delle Statue, 42 statue fabbricate fra il 1945 e il 1989 che raffigurano capi comunisti, militari dell’Armata Rossa: Marx, Engels, Lenin, Bela Kun, Dimitrov, il colosso soldato dell’Armata di Liberazione sovietica. Anche la Tribuna di Stalin, che faceva da piedistallo alla statua di otto metri, nel centro della città, fino al fatidico ‘56 in cui la gente la tirò giù e la fece a pezzi, restarono in piedi gli stivali, e stanno ancora dritti, ma in copia, nel Parco. Succede, l’ho ricordato, che gli stivali resistano, spigionati. Sono più spaesanti a Budapest, dove il lungodanubio custodisce sessanta paia di scarpe di bronzo scalcagnate, in memoria degli ebrei trucidati e annegati.

  

La “soluzione postcomunista” raccoglie oggi il favore di alcuni responsabili del futuro delle statue espiantate. Si possono radunare e consegnarle alla visita dei turisti e delle scolaresche cui mostrare il mondo com’era – fino a un minuto fa: purché, raccomandano, siano abbastanza fuori mano…

  

E di Montanelli, non dici niente? Niente. Mi compromisi troppo con lui vivo, e lui con me. Altre, altri sono senza peccato, o così si sentono. Possono ributtargli addosso, oltre alle vernici rosa e rosse, una sua citazione: “Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente”.

  

A un punto gli imperatori invece di essere sepolti con mogli, corti e animali in carne e ossa, andarono sottoterra con i loro simulacri, come l’esercito di terracotta di Xian. Le statue a volte fanno le veci dei viventi, e li salvano. Altre volte no: le statue dei re (di Giudea, ma scambiati per re di Francia) di Notre-Dame decapitate non salvarono la testa a Luigi e Maria Antonietta. All’entrata di Notre-Dame c’era e c’è ancora la statua di Saint Denis, vescovo e martire, che tiene nelle mani la propria testa mozzata. Decapitare è una mania ricorrente, coi vivi e coi morti. E’ appena successo, con gli altri, a Cristoforo Colombo. Non è solo che tirare giù la statua tutta intera è più faticoso: tagliare teste è un’irresistibile tentazione, la testa è l’uomo. (Cecco Angiolieri: “S’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei? / A tutti mozzarei lo capo a tondo).

  

A Catania c’è una affascinante “statua senza testa”. Sta in via Cardinale Susmet, “sutta l’acchi da Marina”, è Ferdinando I di Borbone scolpito in una posa di imperatore romano da Antonio Calì, allievo di Canova e Thorvaldsen. Eretta nel 1853, perse la testa appena sette anni dopo, nel 1860, quando arrivarono i garibaldini. La testa non si trovò più, e nemmeno la mano destra, il resto fu custodito in magazzino e rimesso in pubblico solo nel 1964. Deve una specie di affettuosa popolarità a quella mutilazione – una distrazione, “Dove ho messo la testa!”. Per giunta, Calì aveva scolpito anche le statue di Francesco I e di Ferdinando II, decapitate anche loro, e così acefale raddrizzate nella Villa Pacini. Poco fa, quando l’Isis mise in scena le sue decapitazioni di umani e la sua macelleria di re assiri, il raccapriccio che ipnotizzò il pubblico universale era ancora torbidamente mescolato a un fondo di memoria di giustizie rivoluzionarie e del dottor Guillotin, médecin politique.

  

In generale, tenersi le statue decapitate è una buona idea. Quella di Kwame Nkrumah (1909-1972), primo presidente del Ghana indipendente, fu decapitata nel 1966, durante un colpo di stato mentre lui era in viaggio in Vietnam. Oggi ad Akkra gli è dedicato un enorme mausoleo e una enorme statua di bronzo dorato, ma si conserva anche la statua decollata e senza l’avambraccio sinistro (l’altro è intero, col pugno chiuso), e accanto, in basso, la testa staccata, con una targa che ricorda l’oltraggio. Fa una buffa impressione: “Dove ho messo la testa”.

   

Nel 1883 un comitato di devoti di Dostoevskij, due anni dopo la sua morte, indisse una sottoscrizione per erigergli un monumento. Il concorso premiò un busto che Anna Grigorievna trovò mediocre e sproporzionato. L’8 giugno 1880 Dostoevskij aveva preso la parola a Mosca per la solenne celebrazione di Aleksandr Puškin, di cui si inaugurava un monumento. Dostoevskij la sentì come la prova più importante. Fu un trionfo. La folla lo invocò profeta. I suoi avversari, lo stesso Turgenev, lo abbracciarono commossi. Le signore ordinarono da un fioraio una enorme corona d’alloro e gliela consegnarono “in nome della donna russa”. La sessione si prolungò fino a tarda sera. Dostoevskij rientrò in albergo, non riusciva a prendere sonno. Si alzò, prese la corona d’alloro e si fece portare attraverso la città deserta in piazza Spaskaja, alla grande statua di Puškin. Restò a contemplarla, poi depose alla base la sua corona d’alloro, e tornò via.

  

Si può avere una devozione per le statue, infatti. Noi, il nostro sentimento civile, lo attacchiamo a qualche tomba e qualche statua. A Dante a Ravenna, a Leopardi che piange sulla tomba di Tasso al Gianicolo. A Santa Croce. A Leopardi senza tomba. Ai busti della Repubblica Romana.

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