(foto LaPresse)

Giovani senza giovinezza

Simonetta Sciandivasci

Il futuro e tutto ciò che non potremo più cambiare. La voce dei millennial è nell’Ohio di Stephen Markley

"Noi lottiamo per una cosa che deve venire e non può non venire”. Ne era certo Francesco, e lo diceva alla sua Pina, Anna Magnani, in “Roma città aperta”. La Seconda guerra mondiale era agli sgoccioli, la libertà a un passo, le macerie tutt’intorno, e allora Francesco sperava, anzi sapeva che avrebbe visto un mondo migliore, perché “noi siamo nel giusto, nella via giusta”.

 

Quella certezza, all’indomani dell’11 settembre, o della guerra in Afghanistan, o di quella in Iraq, non ha abitato nessun cittadino americano. Mai. Una cosa che, negli ultimi vent’anni, è scomparsa dalla coscienza statunitense prima, e di tutti gli occidentali poi, è l’idea di essere nel giusto, e il corollario conseguente: miglioreremo. Nessun millennial direbbe oggi che si deve lottare per una cosa che deve venire e non può non venire, qualunque essa sia, foss’anche l’estinzione. E’ chiaro, ai nuovi adulti, che il mondo è inemendabile, morente, ingiusto, e allora non è più vero che ciò che deve accadere accade, non è più detto che progrediamo e progrediremo, che viviamo e vivremo sempre nel migliore dei mondi possibili.


“La linearità non esiste. Esiste solo questo sogno collettivo scatenato, incasinato, incendiario in cui nasciamo, viaggiamo e moriamo tutti”


 

Le Torri gemelle sono crollate nel settembre del 2001 e da quel momento l’effetto domino non s’è arrestato più, e chi era ragazzino allora è adulto oggi e si ritrova inscritto in un nome inappropriato e trionfante, beffardo, che non riporta i segni dell’abituarsi alla fine che gli ultimi vent’anni hanno instillato in almeno una generazione che naviga senza cartografia.

 

“La linearità non esiste. Esiste solo questo sogno collettivo scatenato, incasinato, incendiario in cui nasciamo, viaggiamo e moriamo tutti”. Lo scrive Stephen Markley nelle prime pagine di “Ohio”, un romanzo imperfetto, prolisso, a volte eccessivo (troppe dichiarazioni, troppe sottolineature) ma lirico e grandioso, su cos’ha significato la scomparsa di quel sentirsi nel giusto, in che modo ha segnato una generazione intera, com’è stato crescere nell’incubo americano, nel tracollo di tutto e, soprattutto, sul contraccolpo che questa catastrofe controllata che sembra essere la nostra vita degli ultimi due decenni ha avuto sulla giovinezza. Com’è essere giovani quando le possibilità sono ridotte, i piaceri razionati, il destino accanito, e tutto sembra farsi unico, piano, piatto, venendo da un’infanzia in cui si viveva in un vibrante multiverso. E’ finalmente arrivato uno scrittore capace di raccontarlo, e pazienza per le indulgenze che si concede – è un autore esondante e fluviale, e troppo giovane per fare delle due cose virtù, ma la letteratura riesce anche quand’è macchiata, forse soprattutto allora. Ha l’età per farlo, e maneggia il suo tempo, ci fa i conti. In questo romanzo c’è scritto cos’è successo alla coscienza degli Stati Uniti, il paese disperato, iroso, spietato che ha eletto un presidente barbaro e gattesco, e che vediamo in questi giorni brigarsi contro, diviso tra bene e male con una nettezza che soltanto il razzismo riesce a dipanare – non ci sono sfumature possibile, o si è razzisti o non si è razzisti.

 

Nel giugno del 2002, Martin Amis scrisse sul Guardian che il 12 settembre del 2001 tutti gli scrittori sulla faccia della terra stavano valutando l’esortazione che Lenin aveva minacciosamente rivolto a Gor’kij: cambiare mestiere. E che lui si sentiva come la topolina cantante lirica del racconto di Kafka, che si chiedeva come avrebbe potuto mai cantare se le riusciva a stento di squittire. E che tutti gli scrittori che si erano affrettati a scrivere di terroristi, aerei, morti, non avevano fatto altro che prendere tempo, perché l’11 settembre aveva ridotto, striminzito ciò a cui stavano lavorando, talvolta rendendolo inutilizzabile per sempre. Da allora, scriveva Amis che praticamente tutti gli scrittori avevano parlato, con voce molto pacata, di assenza di ideologie. “Si ergeva in perenne opposizione alla voce della folla solitaria che con la sua brama e di potere e di annientamento, è il suono più desolato che possa capitarci di udire. Desolato, guarda caso, fornisce al dizionario uno dei suoi voli lirici più complessi: “Desolato, che dà un senso di vuoto mesto e squallido, oltremodo sordido, dal latino desolare, abbandonare”.


L’amore che c’è in questo libro è un amore triplicato dalla tragedia. A una fetta di ragazzi è stata fatta pagare la giovinezza


 

John Updike scrisse “Terrorista” e raccontò come un adolescente americano cresciuto nel niente potesse trovare affascinante, appagante, vitale il jihadismo. Fummo costretti a farci i conti tutti, a guardare nel nostro niente, e capire che per alcuni era ragione sufficiente per svestirsi di Nike, tepore, mamma, papà, Natale, tv satellitare, e dedicare la propria vita a restituire all’uomo il sacro, sterminando chi glielo aveva portato via. In quegli anni, però, di reazioni al nichilismo ce ne furono molte altre, la giovinezza non smise di avere fame, di sbranare, e imparò persino a cercare qualcosa verso cui mostrarsi, equilibratamente, leale ma non fedele. Alcuni finirono radicalizzati, e lo sappiamo. Altri, morirono per l’ideologia opposta, la vendetta spacciata per difesa, ed è al funerale di uno di loro che Markley fa cominciare la sua storia, nel cuore dell’Ohio, lo stato noioso, grigio, molto freddo, molto universitario che però diventa nevralgico quando ci sono le elezioni. Rick, il protagonista assente del romanzo, muore in Iraq, da soldato, e New Canaan lo omaggia con un funerale di Stato al quale i suoi amici d’infanzia non partecipano, “ciascuno per le proprie ragioni”. A ciascuna ragione, cioè a ciascuno di loro, Markeley dedica un capitolo perché in ognuna c’è un modo d’essere che gli americani hanno sviluppato, una tensione diversa per la vita, una rinuncia e un’appropriazione, un abbandono e un’agnizione. La settimana prima del funerale di suo figlio, Marty Brinklan aveva dovuto recuperare il cadavere di una diciannovenne morta per overdose e ritrovata a faccia in giù nella tazza del cesso, e poi sfrattare un ex compagno di scuola di Rick. Mentre parlava davanti alla bara vuota di suo figlio, e sua moglie non riusciva a guardarlo in faccia mentre capiva che non lo avrebbe mai perdonato per essersi sentito fiero di suo figlio e del fatto che era morto per il suo paese, tutti i convenuti non facevano che pensare a quanti ragazzi erano scomparsi, o morti, in quella comunità periferica, minuscola, eppure così esemplare, così americana. “Un padre con le mani sulle spalle della figlia adolescente la strinse all’improvviso, come se il vento forte potesse portarla via”. Non ci siamo resi conto mai abbastanza del fatto che nell’America di Bush, quando esportava democrazia e libertà, naturalmente fallendo, avveniva una strage di ragazzi. “Ohio” fa i conti con quelle morti, con la droga di cui si abusò per sopportarle e che da allora è diventata un medicamento diffuso, distribuito nei medicinali, che ha sorprendentemente abbassato le capacità di resistere al dolore, facendo degli americani un popolo con un consumo di oppiacei fuori misura, fuori di senno, e imprimendo l’indisponibilità a soffrire anche nelle università, nel pensiero, nella teorizzazione, negli hashtag, in tutto. Bret Easton Ellis non molti mesi fa disse che i millennial sono una generazione di smidollati e “Ohio” conduce un’indagine sulle ragioni per cui lo sono. Bret Easton Ellis disse anche che i millennial sono noiosi e privi di epicità al punto da non avere scrittori che li raccontino. E poco dopo venne fuori il nuovo romanzo di Sally Rooney, “Persone normali”, e in molti si affannarono a dire che Ellis avrebbe dovuto leggere Rooney, che lui candidamente dichiarò di non conoscere. Ci credemmo tutti: SR era la nostra scrittrice, la nostra voce, aveva raccontato come nessun altro il modo in cui non riusciamo ad amare, pur avendone tutte le ragioni, il modo in cui non sappiamo sacrificarci per niente che non abbia un tornaconto, la guittezza nella quale ci muoviamo, il terrore precoce che abbiamo di dimostrarci dissimili, la nostra brama di essere come tutti. Rooney, che è irlandese e si dice socialista, aveva ritratto la nostra stanchezza, aveva detto chiaramente che abbiamo ambizioni ordinarie, che il rischio, l’abisso, la passione, la rivoluzione non sono che momenti, sempre più circoscritti, e che ciò a cui davvero lavoriamo, forse perché sappiamo che non l’avremo mai davvero, è una vita prestampata, dove le relazioni servano come volano di altre imprese anziché essere imprese, dove quando ci si arrabbia si finisce in psicoterapia. Un romanzo stupendo, anche se scritto in molti punti con troppi guanti, troppe bilance. Poi dagli Stati Uniti arriva quest’altra voce, che ha qualche anno in più ma non molti, e s’è formata nelle scuole di scrittura al pari di quella dell’irlandese, e racconta una storia molto diversa, racconta di amici che si perdono perché amano la stessa ragazza, perché uno sta con Bush e l’altro pensa che Bush sia la peggiore catastrofe capitata al suo paese, perché una è lesbica e l’altra anche ma non vuole, perché uno muore di overdose mentre la casa va in fiamme e l’altro aveva sottovalutato tutta la droga che tirava, una perché bella in modo imperdonabile. Si ritrovano poi tutti, secondo lo schema di “IT” o di “Stand by me”, perché sono stati amici come i Goonies, condividendo una provincia piena di misteri e anfratti, scegliendosi perché non c’era altra scelta – “eravamo bambini, quel ragazzino mi abita a due passi, posso andarci in bici, perfetto, amici per la vita”. Si ritrovano non perché uno di loro, Rick, è morto, ma perché una di loro, Lisa, è scomparsa. Non si vedono da quando l’ambizione nella quale sono stati cresciuti tutti - studiare, sposarsi, fare carriera - è fallita o è stata deviata dalla storia, dalla volontà, in fondo da una ribellione che ciascuno ha opposto, e che coincide con la ragione per cui non sono andati al funerale. E’ il motivo per cui non credono più nell’America da cui vengono, e tuttavia vorrebbero crearne una nuova, anche se sanno che non lo faranno, che continueranno a scappare, perché in questo sono millennial. Condividono il fatalismo, in fondo comprensibile, di chi la prima volta che s’è affacciato al mondo ha visto due aerei che si schiantavano contro due grattacieli e chi ci era dentro lanciarsi dalle finestre, sciogliendosi, e poi ha fatto i conti con la più grande crisi economica dopo quella del 29, e poi s’è chiusa in casa per due mesi e mezzo per evitare un contagio. New Canaan aveva creato in loro aspettative, le stesse che l’America ha creato in tutto l’occidente, le stesse dalla cui eco ancora non ci riprendiamo e fortunati i ventenni che non le hanno mai viste, né sentite raccontare, fortunati loro che sono arrivati quando era finito tutto e quindi non si poteva che ricominciare. A loro Barack Obama ha detto che avranno il futuro più difficile ma pure più bello.


Rick, il protagonista assente del romanzo, muore in Iraq, da soldato, e New Canaan lo omaggia con un funerale di stato


 

“A volte non mi capacito di quante cose abbiamo perso. Magari è solo l’assaggio di quello che ci resta ancora da perdere”, dice Bill, l’amico e poi nemico di Rick, il patriota codardo, il guerrafondaio forcaiolo, morto per il paese senza alcun dispiacere reale da parte del paese. Bill che aveva una fame diversa e diceva che non si sarebbe fermato prima di aver visto almeno le luci del Nord e il ghiaccio dell’Antartide, e invece poi s’era fermato eccome, e s’era perso, illudendosi che stare dalla parte giusta della storia avrebbe fatto al posto suo, e invece no. Aveva partecipato a Occupy WallStreet ma quando lo Zuccotti park era stato sgomberato, e c’erano rimasti soprattutto i barboni e i pazzi, lui già non c’era più: in una metà pagina, con quest’immagine, Markley racconta come sono finite tutte le mobilitazioni degli ultimi trent’anni. Per il presenzialismo, e la sua forza d’animo tanto effimera. Per l’individualismo, e la sua incapacità di elaborare idee non inermi – “pensava alla possibilità che tutti i suoi viaggi e la sua passione non fossero che una farsa, il suo modo di costruirsi il mondo per dargli un senso”.

 

Premettendo che i romanzi che vogliono spiegare la storia politica e, insieme, penetrare la condizione umana, non riescono a fare nessuna delle due cose (quindi “Pastorale Americana” ce lo siamo già scordati?), il Washington Post ha scritto che Markley è riuscito a restituire “l’esuberante abbraccio” in cui sta una generazione, rendendone perfettamente l’alienazione, la frustrazione, il nichilismo, la passione bruciante.


Sally Rooney era la nostra scrittrice, aveva raccontato il modo in cui non riusciamo ad amare. Poi è arrivato un altro romanzo 


E’ vero, c’è un grande amore in tutti i bambini, e poi ragazzi, e poi adulti, che abitano in questo libro. Ed è un amore triplicato dalla tragedia, da una specie di vendetta del destino: sono stati ragazzi in un modo preciso, pensando che tutto sarebbe stato perdonato, e invece la vita ha presentato loro il conto. Questo racconta, “Ohio”, perché questo è successo, nel nostro mondo: a una fetta di ragazzi è stata fatta pagare la giovinezza. In pochi, troppo pochi, hanno reagito come Lisa, una delle protagoniste, che dice a un certo punto alla persona che ama: “Seguo solo un versetto delle scritture, quello di San Paolo ai romani. Ti ho amato nei momenti più bui”. Ed è quello che l’America chiede oggi, d’amarla nei momenti più bui.