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Il principe William è il ferito a corte, la vittima sacrificale della Megxit

Simonetta Sciandivasci

La scissione dei fratelli Windsor. Il giorno del summit

Roma. Povero principe William, duca di Cambridge e fratello di quello là, quel dimissionario che vuole andare a vivere di stage e amore morganatico in Canada, poi negli Stati Uniti, però soltanto quando Trump sarà fuori dalla Casa Bianca, perché così ha stabilito Meghan, di respirare la stessa aria di un secondino misogino non le va. Il mondo non parla che di Harry, e di quanto sia o non sia sotto lo scacco di sua moglie, e di quanto deve aver sofferto e soffrirà. La regina ha fatto sapere che il dialogo tra lei e gli scappati di casa sarà “costruttivo” perché la di loro voglia di essere indipendenti è comprensibile (date sempre ragione ai fessi e ai millennial, si fa prima). Sempre lunedì è venuto fuori che il vero motivo che avrebbe spinto i duchi di Sussex a declassarsi non è il desiderio di indipendenza ma la prepotenza e il razzismo di William (ma uno che appena si è sposato ha cominciato a perdere i capelli di quale prepotenza volete che possa essere capace). E non un’anima che abbia pensato a lui, l’erede inchiodato al trono, nessuno che si sia domandato come sta, cos’ha nel cuore – paura, rabbia, voglia di bere, fumare, andare via, picchiare suo fratello. Questo è un principe, del resto: quello del quale nessuno si preoccupa. Eppure, il ferito a corte di questa scissione è lui.

  

Al mondo non importa, e neanche agli inglesi, che sono ormai in cronica overdose da separazioni. Harry è già un martire dei perfidi Windsor e del soffocante statuto di consanguineo di regnanti e forse anche di una moglie incontentabile senza la quale, tuttavia, sbandato e soverchiato com’era, mai e poi mai avrebbe avuto il coraggio di opporsi, di interrompere quel gigantesco spossessamento di sé che è avere una famiglia, per di più regnante. Le sue bravate che gli valsero una proposta di 10 milioni per una parte in un film porno, le sue arrendevolezze e infine quest’ultima uscita post punk sono adesso sottoposte a emotivissima revisione: povero Harry, che inferno dev’essere stata la sua vita, quante prevaricazioni, quanta libertà e perline colorate negate.

 

E sì che dev’essere stato un inferno, provateci voi a crescere circondati dai nemici di vostra madre, orfani di lei e nipoti della Regina d’Inghilterra, una che nessuno ha mai visto piangere, e che non si fida neanche di suo figlio, una che delega al massimo la bassa manovalanza, e soltanto per rispetto delle gerarchie. In quest’inferno Harry non era solo, c’era William con lui, a tenergli la mano, a fargli da tutore, a rimanere dritto per permettergli di essere storto. E adesso che sono grandi, e ne hanno attraversate di tempeste, e si sono sposati per amore con due influenti a tratti influencer, e hanno dimostrato che le regole della monarchia sono sfidabili e battibili, si dividono, e sfasciano la famiglia reale che ruotava intorno al loro modo di essere fratelli, difendendosi al di là dell’amore. William resterà solo coi mostri, gli obblighi, la storia, il dovere di “to serve, and survive”. Resterà solo a revisionare il bene che credeva suo fratello gli volesse, e a cercare di perdonarsi per essere stato il migliore, il maggiore, il regolare, senza rendersi conto di come tutto questo costituisse per il fratello un peso insopportabile.

  

In “Una storia vera”, il solo film comprensibile di Lynch, il signor Alvin, 73enne, viaggia per 400 km a bordo di un trattorino tosaerba per raggiungere il fratello con il quale non parla da anni, e che ha appena avuto un infarto. Dice Alvin: “Nessuno ti capisce come un fratello”. Nessuno, più di William, non aveva altri che suo fratello a salvarlo dal destino di portare una corona che sarebbe dovuta andare ad altri, e dalla quale sono scappati in tanti, in troppi, minacciandola, non amandola mai, subendola e basta. Harry aveva un compito più grave e nobile della corona: dare a suo fratello una ragione per portarla, una ragione che fosse l’amore. E aveva un prezzo troppo alto: l’invisibilità.