"I tartassati" è un film del 1959 diretto da Steno con Totò, Aldo Fabrizi e Louis de Funès (nell'immagine, la locandina)

I nuovi tartassati

Michele Masneri

Cronaca di un viaggio nel ginepraio burocratico, persecutorio e folle dove il popolo delle partite Iva bassospendenti lotta per sopravvivere

Chissà se si andrà in galera, o no. Se ti verranno a pignorare i conti correnti, o no. Come in altri paesi anche meno civili si studiano grandi opere, dighe, al limite assalti nucleari o annessioni e genocidi, l’unica progettualità rimasta all’Italia come sistema-paese è quella fiscale. Non passa giorno che non si studino nuovi balzelli o nuovi modi per rientrare dall’evasione. Di qui a fine anno un mostruoso calendario a tappe forzate che dovrà rastrellare 50 miliardi di euro: il 2 dicembre ci son stati gli acconti di tutte le imposte dirette e presentazione della dichiarazione dei redditi; il 16 versamento della liquidazione Iva mensile. Nello stesso giorno ritenute d’acconto sui redditi di lavoro autonomo, Imu e Tasi. Il 27 c’è l’acconto dei versamenti Iva 2020. Il 31 per finire in bellezza ecco la dichiarazione Imu.

 

Andare a vivere in un paradiso fiscale da discorso da cumenda vanziniani anni 80 è ormai il sogno mainstream della classe media

Andare a vivere in un paradiso fiscale, intanto, da discorso da cumenda vanziniani degli anni Ottanta è diventato ormai il sogno mainstream della classe media. O almeno degli amici miei, partite Iva bassospendenti. “Un sovrano buono, magari anche pochi diritti civili, ma basta con la persecuzione”, è il discorso che ci siamo trovati a fare una sera di queste in una cena tra scaffali di Adelphi e Internazionale, tra sinceri democratici, dove in altri tempi si sarebbe parlato di crisi interna della sinistra e di sardine. Il Portogallo, che un tempo evocava Tabucchi, oggi alletta soprattutto per una vecchiaia esentasse.

Non è per non pagare. “Arrivate anche all’80 per cento”, sussurriamo, in queste cene di partite Iva taglieggiate, nel senso di imposizione fiscale, ma almeno rendetecelo semplice. “Prendetevi tutto, vi passiamo direttamente lo stipendio. Ma almeno lasciateci in pace”. Perché non è solo e non è tanto la Grande Imposizione, è la Grande Persecuzione: i metodi frutto di disegni sadici che cambiano in continuazione. Noi fascia alta dei morti di fame, per esempio, siamo tenuti a un nuovo micidiale adempimento, la fattura elettronica: una app che digitalmente gestisce “in cloud” le fatture che tu povero giornalista-autore-creativo mandi al committente.

 

Arrivare alla fattura elettronica – che ti costa 100 euro l’anno, siamo in fase di rinnovi – costituisce poi già un traguardo. Per fare una fattura elettronica serve la posta elettronica certificata (pec). Per avere la pec serve avere la firma elettronica. Per avere una firma elettronica devi avere una copia scannerizzata del tuo documento mandato per posta (qualunque cosa “elettronica” e “in cloud” in Italia presuppone, a un certo punto, la scansione di un supporto di cellulosa). Eseguite tutte queste procedure che ti portano via almeno due giorni lavorativi, ti scarichi il complicato e costoso software. Però la pec, ti dice il commercialista, sostituirà completamente la posta raccomandata in tutte le tue comunicazioni con lo Stato (evviva, che svolta!). Una volta entrati nel mondo magico della fattura elettronica si avrà quasi un sollievo: fare le fatture è effettivamente più facile, le fatture hanno finalmente una numerazione che ha senso. La app ha anche degli aspetti social, è il Facebook delle fatture: “Consigliaci ad un amico!”, suggerisce un pulsante. E poi molte iniziative: “partecipa al webinar sulla tassazione diretta del diritto d’autore, domattina alle 8.30”. Wow. Entertaining. Purtroppo l’intrattenimento si paga: la fattura elettronica – un caso di tecnologia che imita l’umano, o almeno l’umano statale – si prende una settimana. Se prima avevi problemi a farti pagare dai committenti, con le solite tragiche scuse “non è arrivata/controlla il bonifico/manca il CRO, non c’è il CRI”, adesso il committente non ha più bisogno di scuse perché nella settimana successiva all’invio elettronico lo status – il pannello rosso che si apre accanto alla tua fattura – recita che è “in elaborazione”: la complessa elaborazione può durare appunto anche una settimana, che la app impiega per non si sa cosa (però intanto si può fare amicizia tra contribuenti).

 

Il commercialista è avvolto da una nube di soggezione, una sapienza mefistofelica, perché è padrone di una materia melliflua

La fattura elettronica poi dovrebbe far scendere la parcella del commercialista, che fa meno lavoro, praticamente scaricandosi i documenti e basta, ma invece questa continua a salire, perché, dicono i commercialisti medesimi, gli adempimenti continuano a crescere. Ma il rapporto col commercialista è uno dei più difficili della vita, è risaputo. Nella vita di una partita Iva poi il commercialista ha una funzione molto ambivalente, tanto che molti di noi lo scelgono vicino allo psicanalista (entrambe le professioni a Roma allignano soprattutto nel quartiere dei Parioli). Il commercialista poi è avvolto da una nube di soggezione, una sapienza mefistofelica, perché è padrone di una materia melliflua, che cambia di giorno in giorno. Dopo una vita di analisi del sangue, sappiamo tutti infatti leggere un elettrocardiogramma o una transaminasi, ma il senso di una cartella o un 730 con la loro natura proteiforme sfuggono anche ai più scaltri. Ogni volta è come la prima volta.

 

Nella mia lunga esperienza ho conosciuto vari tipi di commercialista: all’inizio ero stato abbastanza ingenuo da imbattermi in un tipo abbastanza classico, il commercialista corsaro: mi era stato consigliato da un collega di molti anni fa. “Ma che sei matto? Se paghi pure l’Iva e le tasse su quella miseria che ci danno non ti rimane niente”; invece che suscitare allarmi, questa frase (ero molto ingenuo) sembrava allettante.

 

Il commercialista corsaro non aveva studio ma veniva lui da me, dopo le otto di sera. Sembrava un uomo in fuga. Mi aveva detto: “Scegli un profilo di rischio: uno, due o tre”. Io avevo detto “tre”, ed ero perduto per sempre. Quando chiedevo lumi mi diceva: “Pure papà ha detto che va bene”: il commercialista corsaro viveva infatti col padre, un ex impiegato delle Entrate, che per anni aveva lavorato col Nemico di cui conosceva ogni punto debole. Il suo mantra era “a pagare sei sempre a tempo”. Il commercialista corsaro era responsabile di avermi instradato al comportamento fiscalmente più masochista: dichiari tutto, non paghi mai (“a pagare sei sempre a tempo”). Quando, anni dopo, arrivavano le cartelle di Equitalia, lui aveva accettato il mio abbandono senza battere ciglio, come se l’aspettasse, come se ci fosse abituato, ed era stato risucchiato nel nulla da cui era venuto.

 

Nel mio percorso di consapevolezza fiscale un amico mi ha instradato allora verso il Commercialista Periferico. Un giorno mi dice che c’è questo Caf bravissimo e che non prende niente, è un po’ lontano, lui guarda le mie scartoffie e dice "nun è facile, ma se po' provà", io apprezzo quelle parole finalmente realistiche, e comincio ad andarlo a trovare. Mi piace il lato rustico ("manca la fattura de Vice", pronunciato come vicesceriffo, insomma come si scrive, a proposito di un articolo scritto per il noto gruppo editoriale). Gli avevo dato la password del cassetto fiscale, altro rito di passaggio – altra misteriosa entità che non dialoga con la Pec e nemmeno con la Fattura elettronica, sono anzi nemiche. Dopo il primario entusiasmo mi accorgo però che per arrivare a Tivoli, prendendo la Salaria, occorre un'ora di macchina, e quando devo portargli le carte maledico quella decisione. Sono pronto allora per il Commercialista dei Parioli.

 

Ma non c’era il cloud, non c’era la Pec, che smaterializza ogni comunicazione? Non c’è il Cassetto fiscale? Siamo tornati al messo?

Il commercialista dei Parioli sta al piano terra di una palazzina dai corrimano lucidissimi in una di quelle vie dai nomi di musicisti, accanto all’ambasciata del principato di Monaco che giustamente ispira risparmio fiscale e pregio. Di solito il contribuente freelance ci arriva perché raccomandato tra un bicchiere di Franciacorta a qualche cena altospendente in cui è ospite. “Ma scusa, vai dal mio, è bravissimo, ti risolve tutto lui”, dice la padrona di casa, e poi aggiunge anche qualche annotazione che avrebbe dovuto metterti in guardia, ma che causa ubriachezza e complessi sociali hai rimosso. Tipo “è bravissimo, mi ha fatto risparmiare ventimila euro di Imu”, dunque avresti dovuto calcolare l’ingente proprietà immobiliare della signora. Che poi, generalmente, aggiunge: “guarda, sai che facciamo? Lo chiamiamo subito". Prima che tu possa fermarla, ti ritrovi il giorno dopo sotto una targa di plexiglass con una grande & e dei “partners”. Il commercialista di qusto tipo ha infatti sempre dei partners. Una signorina dall’abbronzatura levigata ti introduce in una sala riunioni dal tavolo Eames: sugli scaffali noti dei faldoni con nomi di società che hailetto sui giornali, e dunque qui dentro il tuo fatturato ti riporta subito alla tua dimensione proletaria. Andrai subito in depressione. Il Commercialista dei Parioli poi è particolarmente insensibile alle tue disavventure fiscali: nonostante la fattura elettronica e la Pec e il cloud e il cassetto fiscale, un giorno ti invitano a moderare un convegno per la Regione Lazio, e dopo aver firmato un pacco di carte e dichiarazioni che hanno contribuito allo smantellamento dell’Amazzonia peggio di Bolsonaro – quando dovete partecipare a incontri pubblici retribuiti state molto attenti: per un convegno all’università ho firmato anche una carta in cui dichiaro che sono in grado di abbandonare l’edificio in caso di terremoto – faccio la fattura elettronica per la cifra stabilita. La quiete dura poco: pochi giorni dopo una signorina chiama: “mi scusi dottore, ma il pagamento non può avvenire perché ci risulta che lei nel 2010 non ha pagato l’Inps”. Al momento penso a uno scherzo, sembra quando a casa Simpson bussa l’Fbi e Marge dice: “sarà quella penna che ho rubato all’ufficio postale cinque anni fa”. Non è uno scherzo, e a poco vale il mio derelitto rilievo: ma non è anticostituzionale, che un’amministrazione dello Stato frughi nelle tue cose, con la scusa di non pagarti, perché tu dieci anni fa non hai pagato un’altra amministrazione dello Stato? E poi signorina, mi scusi ma io non sono più Inps appunto da dieci anni, ho la cassa dei giornalisti”. “Ah, ma stia tranquillo dottore, noi in quanto stazione appaltante verificheremo tutte le situazioni, anche quella”. Su stazione appaltante cedo, quando frana la lingua è il segno che non c’è più niente da fare. Chiamo il commercialista dei Parioli per dire di cancellare quella fattura: se non la incasserò mai (la prospettiva di inoltrarmi nei meandri dell’Inps mi atterrisce), almeno non ci pagherò Iva e tasse. Il commercialista dei Parioli con aria disgustata mi dice “ma lei l’Iva la deve pagare ; poi semmai emetterà una nota di credito”. Su nota di credito traballo. Il giorno dopo, dopo aver fatto meditazione e aver riflettuto che le cose gravi della vita sono altre, trovo una raccomandata. E’ una temibile lettera dell’Agenzia delle Entrate-servizio riscossione, il nuovo nome trendy della ex Equitalia. Dice che riguarda la pratica 87262729019811617002 e che il Messo comunale mi ha cercato, e non avendomi trovato, ha depositato la comunicazione 87262729019811617002 alla Casa Comunale. A parte che ero in casa tumulato a scrivere, nessun Messo comunale o anche semplice postino ha mai suonato. Ma poi non c’era la Pec, che smaterializzava ogni comunicazione? Non c’è il Cassetto Fiscale? Non c’è il cloud? Come siamo tornati dalla postmodernità al Messo? E poi che nome è, il Messo? Il commercialista dei Parioli è perentorio, e seccato dice “è chiaro che deve andarci lei. No, non ci sono alternative”. Con un brivido mi attrezzo e vado alla Casa Comunale, che sta al tragico indirizzo di via Petroselli 50, un luogo che solo a nominarlo fa imbizzarrire i romani come i cavalli di Frankenstein Junior. Non è solo quel sindaco perito in servizio, è quel palazzo mattonato che è il castello di Kafka delle code, il buco nero della burocrazia, quel luogo dove servono dieci anni per la carta di identità. Dove quando è il tuo turno non sei più riconoscibile dai documenti.

 

Con un brivido mi attrezzo e vado alla Casa comunale, un luogo che fa imbizzarrire i romani come i cavalli di “Frankenstein Junior”

Per tutelarmi un minimo, mentre mi interrogo su quale mistero fiscale conterrà la pratica 87262729019811617002, mi iscrivo alla app “tuPassi”, che promette di saltare la coda. Arrivo un giorno assolato di ottobre, verso l’una, per scoprire che la coda saltabile da “tuPassi” è solo la prima di una tragica sequenza. Mentre mi aggiro tra pareti scrostate, bar iugoslavi, scatoloni, fili elettrici scoperti, facce desolate, incontro l’amico e collega Giancarlo Loquenzi, con aria devastata. “Son qui dalle nove”, mi fa. Questo il racconto che posterà poi su Facebook. “Il 29 ottobre giornata passata alla Casa Comunale insegna molte cose sul paese e su Roma. Ci si va di solito perché il postino non ha avuto la pazienza di vedere se sei in casa. Finisce prima il giro e non deve perdere tempo con citofoni e "firmi qui". Così tu ti devi prendere una giornata di ferie o di permesso per andare a recuperare quello che il postino aveva nella borsa ma non ha voluto lasciarti. Migliaia di persone ogni giorno attraversano la città per questo motivo. Il calvario di ogni malcapitato è diviso in quattro stazioni: 1) Prendere il numeretto dal "Totem". Per prendere il numeretto ci vuole mezz'ora quando va bene. 2) Col numeretto vao alla cassa a pagare 1,50 euro anticipati sul diritto di ritiro dell'atto. C'è una sola cassa dove una gentile impiegata siede ad un tavolo cosparso di monete da un euro e da 50 cent. La cosa strana è che preso il numeretto la maggior parte della gente resta in fila (il totem e la cassa sono nello stesso corridoio) quando potrebbe sedersi da qualche parte o farsi una passeggiata. 3) Dopo aver pagato hai un altro numeretto e una ricevuta del pagamento. Con questa documentazione procedi verso uno stanzone con molti sportelli e sedie messe a mo' di platea. Quando tocca a te vai allo sportello e consegni l'avviso del postino. Io dovevo ritirare una cartella per mia madre e serviva un suo documento. Io avevo la foto sul telefonino. Niente da fare, serve la fotocopia. "C'è una copisteria a circa un km, lei va e loro gliela stampano, ma faccia presto che tra poco chiudiamo". Torno con il pezzo di carta che andrà ad accatastarsi con altri milioni di fotocopie di documenti. 4) "Si accomodi, la chiamiamo noi". Il documento agognato è in qualche recesso del palazzo e deve essere cercato. Non c'è più numero che tenga, addetti alla ricerca si arrampicano sugli scaffali. Alla fine ecco la busta che hai tanto voluto: 380 euro di mancato pagamento del bollo auto”.

 

Io non ho avuto la pazienza di Loquenzi, penso che mi verrà un attacco di panico, me ne vado, la mia pratica 87262729019811617002 rimane lì col suo mistero. Penso a delle soluzioni. La signora a ore che mi fa le pulizie: ma sarà in grado? Sono richieste doti psicosociali elevate. Un’amica freelance mi fa: “io ormai non le vado più a prendere, mi arrestino, facciano quello che devono”. Dice così ma non è vero, lei è fortunatissima e invidiatissima, ha un marito che le ha dato la più grande prova d’amore possibile: ha imparato a tenerle lui la contabilità (dovremmo imparare tutti, solo allora saremmo liberi).

 

Mi viene allora la curiosità di guardare “I Tartassati”, film di Steno di 60 anni fa con Totò e Aldo Fabrizi che rifanno un po’ Guardia e ladri sul tema fiscale. I titoli di testa partono proprio alla Casa Comunale di via Petroselli, e con piglio un po’ anticasta ante litteram si fa dell’ironia: meno male che paghiamo tutte queste tasse, così le strade sono ben asfaltate e i mezzi efficienti! Mi sento ancora peggio. Sento che non troverò mai nessuno che mi fa la dichiarazione dei redditi per amore. Però quasi quasi apro la fattura elettronica, mi guardo un webinar: e magari mi farò almeno dei nuovi amici contribuenti.

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