“Clean the Ocean Pavillon", l'installazione di bottiglie di plastica realizzata al Parco Sempione, a Milano (foto LaPresse)

E mo', senza moplen?

Fabiana Giacomotti

Dal Vaticano a Montecitorio al tormentone cinematografico al Lido, guerra alla plastica. Ma è difficile pensare di poterne fare a meno

Per un anno intero, con il lessico rétro delle coccinelle che fummo in un altro secolo e che ci ha provocato una repulsione totale per il campeggio, le abbiamo chiamate borracce. Ci arrivavano a casa, regalate dalla griffe eco-consapevole anzi “eco-conscious” che fa più fine, dalla banca d’affari e dal fondo internazionale che aveva tenuto una presentazione nell’hotel di moda, insieme con una confezione di jelly beans ai gusti cocco, caramello e menta, queste ultime consumate in un battibaleno, la scatolina di plastica che le conteneva riciclata diligentemente per i bottoni o le graffette, mentre le borracce di metallo si accumulavano in un angolo dell’office, fra la cucina e il corridoio, nel loro freddo lucore e in quella che credevamo essere una totale inutilità fino a quando la scorsa settimana, in un giro di inviti a Cortina, il concierge del Cristallo che ci vedeva partire alla volta del campo di golf ci ha chiesto se non avremmo gradito che ci riempisse la “monodose” di acqua minerale, guatando all’interno dell’abitacolo dell’auto per accelerare un processo che evidentemente svolgeva in automatico da tempo. Ci siamo fatti piccoli, folgorati dalla concreta possibilità di essere gli unici trogloditi che ancora usavano le bottigliette di plastica nell’intero comprensorio delle Dolomiti, escluso forse qualche turista sbracato del genere che “Uno Mattina” addita al ludibrio dell’audience mentre deposita il vuoto vicino alla Fontana di Trevi; quando il ragazzo ce ne ha tese gentilmente due, segnalandoci che erano riciclate e bio, ci siamo letteralmente appiattiti sullo schienale dall’imbarazzo. Ecco a che cosa servivano le bottigliette di alluminio in casa nostra e nelle vetrine dei negozi di gadget chic, e soprattutto i titoli dei giornali che avevamo saltato a piè pari nell’ultimo anno, persi dietro alle smargiassate di Matteo Salvini e ai danni inflitti da Alberto Bonisoli alla migliore gestione dei musei nazionali che avessimo mai avuto prima della sua inopinata nomina al Mibac. In un processo d’espiazione che ci siamo auto-imposti appena scesi a valle e dopo aver verificato che, in effetti, eravamo gli unici provvisti di bottiglie di plastica in campo (in un patetico tentativo di uniformarci all’ambiente, avevamo sempre tenuto l’etichetta “bio” della bottiglia bene in vista ogniqualvolta ci veniva voglia di un sorso), siamo andati a cercarli tutti. Erano meno datati di quanto ci lasciasse supporre la ferma consapevolezza del concierge, epperò definitivi. Delineavano un mondo presente da cui ci eravamo fino a oggi auto-esclusi: una questione molto interessante se si considera l’insistenza con cui scriviamo da anni di riciclo dei tessuti e shopping vintage; volevamo dunque capirne le ragioni. Dopotutto, che diamine ci vuole a riempire la “monodose d’alluminio” al posto della bottiglietta di plastica? Senza contare che entro un anno gli orridi piatti di plastica, le posate inguardabili e le cannucce saranno eliminati dalle nostre vite per direttiva europea.

 


Il polipropilene isotattico di cui erano fatti quei primi secchi, quelle vasche e quegli oggetti da cucina, un’invenzione del Nobel Natta. La plastica è stata il profumo della nostra infanzia. Ne sapremmo distinguere marchi ed epoche dall’odore


 

I media ci dicevano che, per essere à la page, avremmo dovuto averlo già fatto. Il Vaticano aveva già annunciato di voler diventare il primo stato al mondo plastic free. Perfino Montecitorio risultava diventato “plastic free”, insomma beveva acqua dai bicchieri di vetro gente a cui facciamo il contropelo un giorno sì e l’altro pure, sulla stampa, in tv e ovunque ce ne diano modo, per la loro mancanza di stile: “La Camera dei deputati dice addio alla plastica monouso nei bar e al ristorante”, titolo del 19 luglio, mentre noi ne conservavamo più o meno dalla stessa data una bottiglia usata a metà nello zaino senza volerla nemmeno svuotare nel bosco in quanto gassata: noi gonfi di anidride carbonica sì, le radici del pino di fronte mai, per dire la confusione che abbiamo in testa lungo questo difficile passaggio dal post-industriale hard alla consapevolezza ambientale e al benessere soft. Beppe Sala, il sindaco dei nostri cuori di milanesi innamorati della città, aveva appena annunciato che avrebbe dotato tutti i centomila scolari delle scuole elementari e medie del simbolo di appartenenza alle classi colte e responsabili, 60 mila sponsorizzate dalla Metropolitana e 40 mila dalla A2a, la municipalizzata dell’energia.

 

Il titolo più divertente emerso dal web recava però il marchio di Cosmopolitan e risaliva alla scorsa primavera: “Il 22 marzo, giornata mondiale dell’acqua, è il momento giusto per dire addio per sempre alle bottiglie di plastica (…): passa a quelle stilosissime borracce eco-friendly, frizza l’acqua del rubinetto e porta in tavola caraffe green” il che, esterofilia lessicale a parte, ci ha fatto venire in mente l’epoca dell’Idrolitina e una prima, possibile soluzione dell’arcano. Per noi nati all’epoca di quel concentrato di bicarbonato e acido tartarico che nostro padre, medico internista, non voleva assolutamente far entrare in casa e che a noi invece piaceva moltissimo per via del logo Liberty e del giallo canarino della confezione, la plastica è stata il profumo della nostra infanzia. Ne sapremmo distinguere marchi ed epoche dall’odore. Quello vanigliato e irresistibile di certi giocattoli che riproducevano i personaggi della Disney e che squittivano quando li strizzavi, ormai pezzi di modernariato che a Roma vende un negozietto in via dei Cappellari; il nylon dal profumo delicato dei capelli delle prime bambole, i vecchi ed elegantissimi modelli prodotti dalla famiglia Furga che poi avremmo ritrovato come prof di storia francese in Cattolica, nipote del fondatore, l’irresistibile tanfo di idrocarburo del gonfiabile di Susanna tuttapanna, dono della Invernizzi. Per il salottino di plastica (sempre gonfiabile, nei primi Settanta usava come oggi) verde rana della Barbie, tesoro della collezione di una cicciona di nome Simonetta che ci bullizzava, facemmo una malattia. Erano in plastica il bicchiere dell’asilo, il cestino della colazione a imitazione del vimini e in colore azzurro cielo, la copertina dei quaderni che non dovevano rovinarsi e di cui possediamo ancora qualche esemplare, esemplarmente inalterato dal 1970 e che ci sembra impossibile poter equiparare a quanto ci dice un amico antiquario sulla progressiva dissoluzione dei manufatti artistici realizzati in polimeri di varia composizione, nuovo allarme dei musei contemporanei all’origine delle fortune di una certa misteriosissima restauratrice di cui tutti abbiamo sentito parlare ma di cui nessuno vuole svelare il nome.

 


Gli orridi piatti, le posate inguardabili, le cannucce saranno eliminati dalle nostre vite entro un anno per direttiva europea. Tutti a parlare di riciclo. Ma la bottiglia in pet tale nasce e tale deve tornare a essere. Se diventa filato tessile, addio processo “pulito”


 

Queste opere preziose che si sfaldano e si polverizzano devono essere le uniche che non resistano all’azione del tempo e degli agenti atmosferici come la famosa copertina, verde rana anche lei, e dovrebbero essere portate ad esempio, considerando che, per tutta l’estate, il ministero dell’Ambiente ci ha martellati con lo spot sulla salvaguardia del mare dalla plastica e anche alla Mostra del cinema di Venezia, in questi giorni, è difficile evitare l’argomento. Sul grande schermo posto di fronte al red carpet, l’associazione Marevivo onlus proietta infatti 24/7 un video informativo sulle microfibre prodotte dai lavaggi intensivi a cui sottoponiamo jeans e t-shirt e contro le famigerate bottigliette monouso. I titoli superano a destra il lessico di Greta Thunberg: “Per il mare ogni lavaggio è una tortura”, “Non c’è più spazio per fregarsene”; vi riconosciamo il piglio della comunicatrice che se ne occupa, l’inarrestabile Nora Parini che molti anni fa promosse il primo consorzio eco-sostenibile, Replastic, e a questo proposito qualche cosa va detta. Esiste infatti una ricca letteratura sulla vita infinita della plastica e i suoi riutilizzi, ne parlava sul Foglio giovedì anche il fondatore e direttore tecnico di Idea Plast Alessandro Trentini auspicando come ovvio “incentivi per spingere l’industria manifatturiera all’utilizzo di plastica riciclata”, ma anche una ricerca scientifica sul riutilizzo a livello chimico e molecolare. Nessuno, però, tende a raccontare la verità, e cioè che la bottiglietta in pet tale nasce e tale deve tornare a essere. Se diventa filato tessile, addio processo “pulito” e recupero eterno. Il riciclo è back and forth, andata e ritorno, non random, prima bottiglia poi abito da sera poi bicchiere poi boh. Qualche anno fa, la stessa H&M che ora ha sottoscritto il Fashion Pact promosso dal presidente francese Emmanuel Macron e da François Henri Pinault (era un progetto italiano, anzi della Camera della Moda e di tutte le aziende del riciclo tessile che, guarda caso, si sono sviluppate in Italia e perlopiù in Trentino e in Umbria: una grande occasione che avremmo potuto giocarci meglio non avessimo avuto Luigi Di Maio al Mise e tutti i suoi uomini piazzati nei posti chiave a tenere fermi dossier che non capivano) produsse una bella collezione di abiti in tessuti riciclati dalla plastica. Ecco, almeno per il momento non potranno tornare a essere le bottiglie che furono, e diventeranno invece parte di quei milioni di tonnellate di rifiuti (fra i 3 e i 4 all’anno) che produciamo solo in Italia, e che ricicliamo per una quota inferiore al 30 per cento. Questo per dire che, pur avendo lasciato le borracce/monodose nell’office intonse per qualche stagione ed essendo restie anche solo a immaginare una vita senza plastica per ragioni nostalgico-affettive, sappiamo bene di che cosa parliamo.

 

Nessuno discute sul fatto che sia un gran male se le particelle dei piatti di plastica buttati in mare dal cafone dello yacht ormeggiato in rada siano entrate a far parte della nostra dieta quotidiana di pescetariani, le immagini del Pacific Trash Vortex ci mettono l’angoscia ogni volta che ci finiamo sopra, ogni volta che torniamo dal supermercato diciamo a noi stessi che non abbiamo ancora acquistato abbastanza provviste sfuse e abbiamo appena portato all’attenzione dell’assessore all’Ambiente del comune lacustre dove soggiorniamo spesso un certo tipo “tanto semplice, poverino” che però, o forse proprio per questo, brucia i rifiuti di plastica nel giardino di casa producendo certe nubi nere e spesse da far spavento. Ci fanno orrore, i danni della plastica. Epperò non riusciamo a immaginare una vita senza di lei. Riciclata anche all’infinito, ci mancherebbe, e con attenzione. Per esempio, ci piacerebbe sapere quali siano gli sviluppi del progetto Res Urbis – REsources from URban BIo-waSte – coordinato dalla Sapienza con altre università italiane, e ben ventuno partner fra imprese, associazioni e amministrazioni pubbliche di otto paesi europei. Lo studio, mirato alla valorizzazione degli scarti urbani di origine organica attraverso la trasformazione in bio-polimeri per la produzione di plastiche eco-compatibili, è stato finanziato nel 2018 dalla Comunità europea nell’ambito del progetto Horizon 2020 con tre milioni di euro: non tanti visti gli obiettivi, ma neanche una cifra disprezzabile. Di certo, e purtroppo, lontana da quelli che fra gli anni Trenta e i Sessanta fecero dell’Italia la leader del processo inverso. Abbiamo “rapallizzato” i territori più belli della penisola così come abbiamo riempito il mondo della nostra plastica. La migliore del mondo, ma sempre tale. Ricordate il Carosello di quel prodotto che sembrava un doppio senso, “Ma signora badi ben / che sia fatto di Moplen”?

 

 

Il polipropilene isotattico di cui erano fatti quei primi secchi, quelle vasche e quegli oggetti da cucina “e mo’ e mo’ e mo’ Moplen” era, anzi è perché il materiale è ancora largamente in uso, anche nel settore della salute in quanto “atossico”, una caratteristica della plastica che ci è stata inculcata decenni prima che si formassero delle isole di rifiuti nell’Oceano Pacifico, una nostra invenzione, o per essere precisi di Giulio Natta, che per i suoi studi ottenne il premio Nobel nel 1963. La prima sillaba indicava la Montecatini: si sa com’è finita. Noi, in attesa di tempi migliori, procediamo per prove ed errori come nella teoria comportamentista di Thorndike e Skinner. Passiamo dal più profondo senso di colpa a moti di ribellione arrabbiati e totali. Dicono che il processo evolutivo funzioni così.

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