Harvey Weinstein (foto LaPresse)

Un mondo senza Allen e Louis C.K.? Idee per salvarsi dalla cancel culture

Simonetta Sciandivasci

Il New Republic propone di far parlare i molestatori

Milano. Facciamoli parlare, che ci abbiano molestate o no, che abbiano solamente pensato o desiderato di farlo, che siano finiti davanti al giudice giustamente o ingiustamente, che non lo siano finiti affatto e abbiano subìto comunque un processo e rimediato una condanna. Lo ha proposto Lidija Haas sul New Republic, in un pezzo bello e articolato sulle conseguenze di certi hashtag. E’ l’ora di passare la parola agli uomini, ha scritto, e riparare così i danni di una delle armi peggiori di cui s’è servito il #MeToo (peraltro, con l’effetto di affilarla): la cancel culture, quell’idea (modo, sistema) per cui quando una figura pubblica commette qualcosa di impresentabile, da una battuta sconveniente a un abuso sessuale, merita l’ostracismo perpetuo e pure retroattivo.

 

Nel 2016, il New York Times scrisse che la cancel culture nasceva dal bisogno di esercitare un controllo su quello che scrivevamo sui social network ovvero tutto e senza alcun filtro, poi venne il #MeToo, ebbe i suoi occhi e la trasformò nel dovere di oblio (di Woody Allen, di Michael Jackson, di Louis C.K. – “il mondo senza Louis C.K. andrà avanti lo stesso” scrisse una volta l’Independent). E’ stato un errore madornale, e finalmente si comincia a metterlo nero su bianco: dice Haas che è diventato urgente coinvolgere gli ostracizzati nella ridiscussione del consenso, delle relazioni, del sesso, del disequilibrio di genere, insomma in tutto quello che le donne hanno cominciato a ridiscutere da due anni a questa parte.

 

Preliminarmente, è necessario pulirsi lo sguardo e cominciare a guardare i carnefici come vittime anche loro di un sistema che ha reso inscindibile il potere dal sesso. E’ il solo modo di preludere a qualcosa di molto diverso dal detox e dalla rieducazione preventiva del maschio del futuro che sono stati proposti finora, e che partono entrambi dalle donne e dalle vittime. L’idea di Haas, l’#eTtu che propone nel suo pezzo, è di tirar fuori anche dagli uomini il racconto di cos’hanno provato, cosa li ha spinti, cosa li ha disgustati, amareggiati, forse persino costretti ad abusare di un potere, un ruolo, una posizione. Farli esporre anziché farli nascondere.

 

Scrive Haas: “Non è incoraggiante immaginare un mucchio di uomini malridotti che restano soli, esclusi da tutto, e in privato interpretano a modo loro le ragioni per cui vengono puniti, e magari pensano si tratti di una semplice presa di potere da parte delle donne, anziché di un cambiamento radicale nel modo di fare affari”. In sostanza, se i molestatori li cancelliamo, non otteniamo molto di più di quello che si è sempre ottenuto con il proibizionismo: il sotterfugio, il cambiamento di facciata e mai sistematico, né sostanziale.

 

Rose McGowan, icona della demolizione di Harvey Weinstein, del quale (a proposito di cancel culture) ha ricominciato da poco a pronunciare il nome (prima era “il Mostro”), ha detto al Guardian, in un’intervista di pochi giorni fa, che il #MeToo è stato la battaglia della sua vita, ma che non ha intenzione di lasciare che la rappresenti. Ha detto anche che il New York Times s’è preso tutti i meriti e che è riuscito quasi a intestarsi la sua battaglia, prendendosene le vittorie – “Sono stata io a contattarli e spalancare i loro occhi e non loro a chiamare me”. E questo, nel linguaggio di Gowan e nelle sue intenzioni, è un modo per dire che, in fondo, non è cambiato niente, o forse troppo poco. E’ una convalida della tesi di Haas e della necessità di riconoscere che il #MeToo ha adottato strategie vendicative, sfiancanti e in definitiva controproducenti (nullaproducenti?) i cui effetti stanno lentamente venendo a galla.

 

Più che curare, abbiamo inibito. Più che spiegare, abbiamo intimorito. Più che ribaltare, abbiamo seppellito. E così, i mostri si sono acquattati in cantina, in attesa che la bufera passi. Bisogna, invece, andare a prenderli prima che passi, gettarceli dentro, farli parlare, e uscirne con loro.

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