Boris Johnson (foto LaPresse)

Da Johnson a Conte. Dimmi come ti pettini e ti dirò che populista sei

Michele Masneri

Ciuffi, riporti, ricci, gel: è l’èra del sovranismo tricologico

Insomma sarà probabilmente Boris Johnson il prossimo premier inglese, dopo il defatigante governo May. L’ex sindaco di Londra, classicista, giornalista, scrittore, sta vincendo le primarie dei conservatori e la Gran Bretagna si appresta così ad avere il suo primo ministro più tricologicamente spericolato, almeno dai tempi dei premier settecenteschi in parrucca. Il confronto è naturalmente con Trump: sia per la tinta delle chiome sia per la complessità della messa in piega. Come il presidente americano anche l’immaginifico Johnson ha avuto tre mogli (anche se l’attuale compagna, Carrie Symonds, figlia del fondatore dell’Independent entrata nell’ufficio stampa dei conservatori dieci anni fa affiancando Boris nella campagna per la rielezione a sindaco di Londra, non è ancora sua consorte ufficiale. La nuova fidanzata è però ritenuta responsabile del dimagrimento di Johnson, e della minor trasandatezza. Mentre le chiome rimangono uguali. Se si sposassero, sarebbe la prima volta da duecentocinquant’anni a oggi per un premier britannico in carica).

 

Tutti i populisti si somigliano un po’, ma ognuno ha il suo haircut. Nel genere biondone-stopposo rientra anche Geert Wilders, fondatore e leader del partito per la Libertà olandese, populista sui generis (libertario, non antisemita, un po’ thatcheriano, si ispira direttamente a Theo van Gogh, il regista discendente del pittore che fu assassinato nel 2004 da un fanatico islamico dopo aver girato “Sottomissione”, un cortometraggio dedicato al destino delle donne musulmane. Anche lui biondo e arruffato).

 

Beppe Grillo, portatore in proprio di populismo tricologico, è invece alfiere di un altro sottogenere, quello del disordine creativo sale e pepe. Così condannava, almeno sub specie tricologica, il collega Trump all’epoca dell’elezione. Affibbiandogli il soprannome di “pannocchia” (“anche di Pannocchia i grandi media hanno detto molte cose simili a quelle che dicono del Movimento. Ricordate? Dicevano che noi eravamo sessisti, omofobi, demagoghi, populisti”, scriveva il comico sull’autorevole Blog delle Stelle a novembre 2016). Alla stessa categoria, tipo Puerto Escondido, appartiene il leader di Podemos, Pablo Iglesias, tendenza populismo di sinistra, un po’ Fiorello prima maniera con codino più pizzetto, ricorda invece il look da animatore che esibiva un tempo anche Alessandro Di Battista. Il Dibba, quello dei gloriosi anni dei villaggi turistici (quando era soprannominato “cuore di panna”), prima delle spremute di umanità, dei reportage americani, e ora della curatela della saggistica presso Fazi Editore (nella nuova veste di scout letterario leggerà, ha detto, tantissimo, soprattutto su tematiche come “blockchain”, “sondaggiocrazia, movimenti politico-sociali africani”, “reddito universale”). Ma anche l’editore Elido Fazi, passato dalla pubblicazione di John Fante negli anni Novanta al Dibba, sfoggiava l’altra sera alla Cinquina dello Strega il consueto ciuffo-più-pizzetto. Ciuffo un po’ alla Steve Bannon, il populista-sovranista che imperversa tra gli Stati Uniti e l’Europa e che avrebbe dato parere decisivo sulla scelta di Giuseppe Conte come presidente del Consiglio italiano gialloverde l’anno scorso: è quello che sostiene Michael Wolff nel suo ultimo libro sulla Casa Bianca, “Assedio, fuoco su Trump”, appena uscito da Rizzoli. Conte però ricade in un’altra categoria tricologica-populista, quella perfettina, possibilmente con gel o brillantina Linetti, che raduna anche il populista di estrema destra austriaco Heinz-Christian Strache, quello che lo Spiegel aveva mostrato in un video a Ibiza in cui il vice cancelliere offre la sua collaborazione a una sedicente emissaria russa (di lì il disastro, le dimissioni e la crisi di governo austriaca). Ciuffi pacificati e sempre a posto anche per Jared Kushner, il first genero d’America, che sempre secondo Wolff avrebbe addirittura plagiato il suocero sulla politica estera, esautorando ministri e consiglieri, forte di un micidiale vantaggio informativo. Leggerebbe infatti molto (come il Dibba): tutte le mattine, addirittura, il New York Times.