L'inaugurazione della sede di Linkedin per l'Europa, il medio oriente e l'Africa, a Dublino a fine 2017 (foto LaPresse)

Oh, che bel castello

Fabiana Giacomotti

Ma quale livella digitale. Influencer-sovrani, “like” di nuovi cortigiani, vassalli amici o bannati: un principio feudale governa i social network

E’ passata meno di una settimana dal lancio e non si hanno più notizie dei risultati della campagna “vinci Salvini”, interpretazione informatica contemporanea dell’istinto alla venerazione teorizzato da Nietzsche in cui ci si merita “un incontro con il Capitano” affrettandosi a “mettere like ai suoi post”. Sulla pagina dedicata online al concorso, alla quale si può accedere tramite Facebook, consegnando cioè tutti i propri dati sensibili anche volendo solo dare un’occhiata, sotto la faccia del vicepremier e un gran pavese rosso compare la scritta in piccolo “copyright Lega 2019 – Salvini premier”, e per i circa 2 milioni di seguaci o follower che vi si trovano registrati questa deve già sembrare la realtà, e i social il mezzo ideale per viverla. Più e quanto più velocemente plaudi, maggiori possibilità hai di stabilire un contatto diretto con il grande capo, di essere ammesso al suo cospetto e di ottenerne i favori, in realtà con le stesse modalità del Cortegiano: sorridere, inchinarsi, complimentarsi con garbo, motteggiare.

La campagna “vinci Salvini”: più e quanto più velocemente plaudi, maggiori possibilità hai di stabilire un contatto diretto con il grande capo

Questo vale per il capitano Salvini e lo schema iconografico del logo del concorso, drammaticamente simile a quella di capitan Nostromo ma forse in questi anni di scatolette di tonno da aprire è fatto apposta, e beninteso vale anche per il gran capo dell’azienda a cui abbiamo chiesto l’amicizia un po’ tremebondi qualche mese fa e che continua a non concedercela, tanto che gli abbiamo mandato una noticina in privato su messenger al quale, disdetta, non ci ha dato accesso. Vale per lo scrittore che ci piace tanto ma che ha raggiunto il limite massimo di “amici” e non ne bandisce o “banna” nemmeno uno per fare posto a noi; vale naturalmente per il contatto LinkedIn a cui abbiamo domandato informazioni su una possibile opportunità di carriera in una certa società, rivelandogli quindi le nostre ambizioni in modo crudo e palese come non avremmo fatto nemmeno con il nostro avvocato.

 

 

 

I social non sono affatto i mezzi equalizzanti, livellanti che crediamo. Al contrario, si basano sul principio gerarchico della società feudale europea: tu, vassallo, mi chiedi l’amicizia, cioè l’accoglienza entro la cerchia delle mura del mio castello e, a un livello più alto di contatto, di sederti alla mia tavola, cioè nella mia cerchia più intima e ristretta, offrendoti di consumare il pasto con i miei sodali e i miei famigli. Io, signore del luogo, te la concedo, ma posso anche scacciartene, addirittura per sempre, biblicamente: posso “bannarti” che, l’assonanza non vi sarà sfuggita, equivale a “dannarti”. Il mondo alternativo virtuale in cui cerchiamo di accomodarci da meno di un decennio è quello che conosciamo da sempre, ma è un po’ peggio. Gli adulatori lo diventano al quadrato, sbeffeggiati in privato per la velocità con cui appongono un like alla foto del boss in costume e panzetta, i cretini vengono messi all’angolo, gli ignoranti per carità: fino a qualche tempo fa, sulla declinazione e l’ortografia a casaccio dei verbi ausiliari si soprassedeva. Adesso si spara e si scaccia.

 

La cacciata dal paradiso social è così significativa e simbolica che perfino i troll di bassa tacca, quelli che limitano le invettive al livello delle comari di Bocca di Rosa, una volta sospesi da Facebook o dal suo derivato modaiolo Instagram si premurano di darne notizia agli amici virtuali attraverso gli altri social, addebitandone la colpa non a un algoritmo, ma direttamente al sire di Facebook Mark Zuckerberg. Finire nelle maglie, anzi nel maglio, dell’arida matematica, che è in effetti quanto succede quando usiamo termini o immagini violente e offensive (da pochi giorni anche live, che è stata fino a oggi la modalità preferita dagli attentatori), non farebbe notizia, non darebbe giusto riconoscimento al valore di chi sgarra.

 

Gli adulatori lo diventano al quadrato, sbeffeggiati in privato quando appongono un like alla foto del boss in costume e panzetta

La punizione dev’essere semi-divina: uno zot dall’olimpo, Lucifero in caduta sotto la mano di Dio, Tarquinio il Superbo cacciato da Porsenna, gli hacker internazionali contro il sistema Rousseau, vorrai mica che sia un ragazzino. Solo così, il bando o la falla auto-generata risultano accettabili: come nella più trita e la più vieta delle ripartizioni classiste. Il principio dell’uno vale uno e le ormai celeberrime invettive di Umberto Eco contro le “legioni di cretini” a cui il web avrebbe dato la parola, vanno infrangendosi ogni giorno di più contro il principio del “grafo aciclico interconnesso” come da immagine standard dei manuali di antropologia, con la freccetta dalla radice verso il basso. La celebre gerarchia dei bisogni di Maslow è stata adattata a fini di social marketing, e ai vertici della piramide c’è “l’autorealizzazione dell’influencer” (alla base, dove un tempo stavano i bisogni primari come fame, sete, sonno, sesso, adesso c’è lo smartphone). Perfino il numero dei questuanti alla porta, le “richieste di amicizia”, è diventato motivo di vanto e di apposito post informativo dell’influencer-re nei confronti dei vassalli già facenti parte del gruppo, perché ne traggano rassicurazione e motivo di vanto.

 

“Oggi mi sento buona. Alleggerisco un po’ la lista di richieste di amicizia accogliendone un centinaio. Ma vi avverto che bannerò chiunque usi un linguaggio non appropriato”, scrive straordinariamente seria sul suo account Facebook una bionda e boccoluta signora romana di frequentazioni e scrittura modaiola, usa ai lamenti sulla propria sorte matrimoniale e per questo rifuggita da chiunque la incroci di persona alle feste o alle sfilate, ma molto generosa di foto delle stesse e dunque fonte di interesse per i tanti, ed è incredibile ancora quanti, nonostante tutto sia disponibile live sui siti, smanino per il posto in prima o anche in terza fila agli eventi.

 

Un modello gerarchico che è inutile negare: continua a venirci naturale. Ci era caduto anche Sartre (vedi che succede in “Huis clos”)

Ogni aspetto dei social è fattore di divisione, di categorizzazione, di selezione: la qualità e la tipologia degli “amici”, il loro livello socio-culturale, il lessico che usano. Sui social veniamo giudicati come per strada, parlando con uno sconosciuto, non saremmo mai: sono un palcoscenico, ma anche una tribuna permanente. Non a caso, i più formali badano anche alle convenienze e al lessico, puntualizzando diritti di precedenza e tenore dei messaggi di cortesia (in sintesi: se tu mi chiedi l’amicizia e io te la do, non devi essere tu questuante a inviarmi messaggi di condiscendente “benvenuto”, semmai devo essere io che te l’ho concessa a farlo: un errore in cui cadono spesso gli uomini nei confronti delle donne, per le ragioni storiche che vi saranno chiare e che proprio per questo risultano molto indisponenti, provocando quasi sempre il “bando” immediato). Insomma, per metterla con lo Shakespeare di Troilo e Cressida, “una volta soffocata la gerarchia, regna il caos”. E il web sarebbe troppo caotico per poterne fare a meno: non a caso, si sviluppa esso stesso su modello gerarchico (gli indirizzi IP sono classificati in modo che il routing continui a funzionare con il crescere delle interazioni; Google vive di indicizzazioni e posizionamento). Funzioniamo per ordine, vogliamo sapere che cosa, chi e perché viene prima, che cosa dobbiamo leggere adesso, subito, e che cosa possiamo posticipare a stasera. Le istituzioni sociali, cioè create dall’uomo, come il matrimonio, possono anche variare con il tempo.

 

Il sistema gerarchico irreggimenta e categorizza invece l’istinto atavico del branco e dunque, anche con tutto l’affinamento che gli vogliamo dare, continua a venirci naturale. Ci era caduto perfino Jean-Paul Sartre che, come diceva Simone de Beauvoir, “detestava le routine e le gerarchie, le carriere, i focolari, i diritti e i doveri, tutto il serio della vita” e “non si adattava all'idea di fare un mestiere, di avere dei colleghi, dei superiori, delle regole da osservare e da imporre; non sarebbe mai diventato un padre di famiglia e nemmeno un uomo sposato”. E’ dunque facile immaginare che non sarebbe mai sottostato all’imperio dei social e, come Enrico Mentana con il primo gran rifiuto pubblico alla tirannia dei social, si sarebbe mescolato ai network via smartphone quel tanto che bastava a comprenderne il meccanismo e ad allontanarsene. L’enfer c’est les autres. E invece no: basta scorrere le poche pagine di “Huis clos” con il loro celebre aforisma sull’orrore che i rapporti interpersonali rappresentano per capire che, perfino quando tenta di mettere in scena la vita oltre la vita, Sartre ricade nello schema dei rapporti di forza e di sudditanza che vuole negare, nella sperequazione fra forze di potere e istinto, assegnando il ruolo di leader al personaggio di Inès, la lesbica che ha costretto l’amante, “una sciocchina”, a uccidere il marito: è lei che lungo tutto il dramma manipola gli altri due dannati, Estelle e Garcin, a rivedere le proprie opinioni su se stessi e gli altri; lei che guarda in faccia il crimine commesso senza paura, al contrario degli altri due, e che decide di non varcare quella “porta chiusa” che è invece sempre stata aperta, suggellando cioè il cerchio del rapporto di forza a tre: “Noi resteremo soli e insieme fino alla fine. Va bene?”. Il controllo della vita oltre la morte in un mondo identico e parallelo a quello in cui si è sempre vissuto, la regolazione del chi-fa-cosa anche quando non ci sarebbe più niente da fare, con Estelle che cerca il sofà del colore più adatto a far risaltare il suo vestito per sedersi assomiglia molto al mondo virtuale, e anche questo parallelo, nel quale crediamo di poter vivere sui social, e su quanto ci sbagliamo.

 

Perfino il numero dei questuanti alla porta, le “richieste di amicizia”, è diventato motivo di vanto. I social come tribuna permanente

Qualche giorno fa, aprendo la sezione “Life and Arts” del Financial Times del sabato, lo scrittore Mark Haddon, l’autore dello “Strano caso del cane ucciso a mezzanotte”, raccontava di essersi scollegato da Twitter perché il tempo che dedicava a immaginare post divertenti, intriganti, ma soprattutto adeguati al livello della sua fama e del suo status iniziava a rubargli troppo tempo. In particolare, non riteneva di essere mai all’altezza. Gerarchizzava il proprio valore alle reazioni che i lettori, potenziali, conosciuti e no, gente che magari mai avrebbe letto una sua riga, avrebbero dato alle sue battute. Vassalli anche sgraditi, insomma. “Quello che mi ha convinto (a chiudere l’account) è stato qualcosa di sinistro e pervasivo; la sensazione crescente di percepire e interpretare il mondo attraverso l’uso che avrei potuto farne sui social e tentando di semplificarne gli aspetti più complessi”. “I was quietly fashioning tweetable material”, dove fashioning indica la capacità di modellare, di tagliare a misura. Io, signore del mio castello social, mi assoggetto ai bisogni semplici e semplificati dei miei vassalli: la gerarchia multipla e implacabile dei social in effetti funziona anche al contrario, cioè con la freccetta dalla radice verso l’alto perché anche re Lear, alla fine e dopo aver sbagliato mira a ripetizione, si accorge di avere bisogno degli altri, e ne sta dando buona prova Carlo Calenda con la quieta semplicità attraverso la quale tenta di spiegare l’economia sui social, senza perdere la pazienza neanche di fronte alle provocazioni più ottuse. Il peso della gerarchia sui social è particolarmente evidente su LinkedIn, la piattaforma che avrebbe dovuto sostituire gli head hunter e invece, guarda caso, ha dato loro solo più lavoro. Funziona benissimo quando si debbano identificare aziende a caccia di personale di primo livello o per gli stagisti, cioè in logica masloviana stretta, freccina verso l’alto. Per le posizione medie o apicali, mettersi a caccia di relazioni o “collegamenti” equivale anche a mettere in piazza che si sta cercando lavoro altrove o lavoro tout court, sollecitando nel frattempo “collegamenti” o benemerenze con la stessa logica della raccomandazione. E infatti, nell’Italia della raccomandazione purché non si sappia, un ultraquarantenne preferirebbe morire piuttosto che cercare un aggancio su LinkedIn, un po’ come sventolare la tessera del reddito di cittadinanza nel supermercato sotto casa quando poi, magari, ci sono stati concessi giusto cinquanta euro. Il punto è che noi ci inchineremmo anche, ma preferiremmo non farlo sapere.

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